EBRAISMO

Conoscenza. Dall'insegnamento del disprezzo al dialogo: leggere la Bibbia dopo Nostra Aetate

Dall'insegnamento del disprezzo al dialogo: leggere la Bibbia dopo Nostra Aetate

La fine dell’insegnamento del disprezzo

Il 28 ottobre 1965, con poche righe del quarto paragrafo del documento conciliare Nostra Aetate, la Chiesa cattolica chiudeva quasi duemila anni di “insegnamento del disprezzo” verso il popolo ebraico. Non fu solo una dichiarazione di principio, ma una profonda trasformazione teologica che avrebbe cambiato il modo stesso di leggere le Scritture.

Quel documento, nato dall’incontro tra Giovanni XXIII e lo storico ebreo Jules Isaac, ha innescato un processo di rinnovamento che continua ancora oggi: non solo nell’interpretazione delle Scritture, ma nei rapporti stessi tra cristianesimo ed ebraismo. Sessant’anni dopo, possiamo vedere come quella svolta abbia trasformato secoli di ostilità in dialogo e collaborazione.

Giovanni XXIII e Jules Isaac

Dalla teologia della sostituzione al riconoscimento dell’alleanza permanente

Nostra Aetate operò una svolta esegetica decisiva citando Romani 11,29 in un contesto completamente nuovo. Per la prima volta nella storia conciliare un documento proclamava la permanenza dell’alleanza con Israele, ribaltando secoli di teologia della sostituzione:

«Secondo l’Apostolo, gli Ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento» (NA 4).

L’approfondimento biblico arrivò con i documenti della Pontificia Commissione Biblica. Nel 1993, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa rappresentò un primo passo significativo, riconoscendo per la prima volta l’importanza dell’approccio esegetico ebraico e il valore dei metodi interpretativi della tradizione ebraica per la comprensione cristiana delle Scritture.

Otto anni più tardi, nel 2001, la Pontificia Commissione Biblica pubblicò Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana, un documento che affrontava questioni appena accennate da Nostra Aetate. Esso compì una svolta decisiva affermando che “i cristiani possono e devono ammettere che la lettura ebraica della Bibbia è una lettura possibile, che si trova in continuità con le sacre Scritture ebraiche dall’epoca del secondo Tempio ed è analoga alla lettura cristiana, che si è sviluppata parallelamente ad essa”.

Un riconoscimento altrettanto determinante era già stato espresso nel 1985 dal documento Sussidi per una corretta presentazione degli Ebrei e dell’Ebraismo nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica, pubblicato dalla Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo. In esso si leggeva che “Gesù è ebreo e lo è per sempre”, ribaltando secoli di interpretazioni che avevano contrapposto Gesù al suo popolo. Era un passo cruciale verso il superamento definitivo dell’idea che l’ebraismo fosse soltanto una preparazione imperfetta al cristianesimo.

La Torah in sinagoga

La riscoperta dell’identità ebraica di Gesù negli studi neotestamentari

L’affermazione “Gesù è ebreo e lo è per sempre” non era solo una constatazione storica, ma rifletteva una trasformazione radicale negli studi neotestamentari. Infatti, la “Terza ricerca” (Third Quest) del Gesù storico, sviluppatasi proprio negli anni del dialogo post-Nostra Aetate, ha restituito un Gesù profondamente ebreo. Studiosi come E.P. Sanders, Geza Vermes e Amy-Jill Levine hanno mostrato che le parabole e l’insegnamento di Gesù si inseriscono perfettamente nel giudaismo del primo secolo. Quando Gesù discute con farisei e sadducei, non sta fondando una religione alternativa, ma partecipa ai dibattiti interni all’ebraismo del suo tempo. Anche i conflitti narrati nei Vangeli sono stati compresi diversamente: quando Giovanni parla de “i Giudei”, non condanna tutto il popolo ebraico, ma descrive le tensioni tra diverse correnti dell’ebraismo del primo secolo.

Sinagoga di Cafarnao

La fine dell’esegesi “adversus Judaeos”

Per secoli, gran parte dell’interpretazione cristiana aveva sviluppato un’ermeneutica definita adversus Judaeos, cioè sistematicamente anti-ebraica. Passi evangelici come Matteo 23 (“Guai a voi, scribi e farisei ipocriti”: vv. 13 e 15) venivano letti come condanne generali dell’ebraismo, alimentando stereotipi e consolidando la teologia della sostituzione, secondo cui la Chiesa avrebbe preso il posto di Israele nel piano salvifico di Dio. La ricerca biblica e storica post-conciliare ha radicalmente modificato questa prospettiva. Studi filologici, storici e sociologici hanno dimostrato che le parole di Gesù e le polemiche riportate nei Vangeli devono essere collocate nel contesto del giudaismo del I secolo, quando il movimento di Gesù era una delle numerose correnti all’interno dell’ebraismo palestinese. Le critiche agli scribi, ai farisei o ad altre figure del tempo riflettevano tensioni interne tra diverse interpretazioni della legge e della vita religiosa, e non attacchi al popolo ebraico nel suo insieme. Questa comprensione ha trovato conferma ufficiale nel documento della Pontificia Commissione Biblica del 2001, Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana. Il testo chiarisce come molte polemiche evangeliche siano il frutto di dibattiti intra-ebraici. Solo in un secondo tempo, dopo la separazione definitiva tra cristianesimo ed ebraismo nel periodo post-templare, tali dispute furono interpretate dai cristiani come contrapposizione tra le due religioni.

Ai generated - Gemini

Grazie a questa prospettiva, Gesù può essere compreso pienamente nel suo contesto ebraico: egli partecipa attivamente alle discussioni teologiche del tempo e mostra rispetto per le pratiche religiose del suo popolo. Anche Paolo viene reinterpretato: le sue lettere non pongono la Chiesa in opposizione al popolo ebraico, ma evidenziano come l’inclusione dei Gentili rientri in un progetto salvifico originariamente rivolto a Israele. In questo quadro, la scelta di Israele da parte di Dio non esclude gli altri popoli, ma li attira a sé attraverso Israele, dimostrando così che universalismo e particolarismo non sono in contraddizione, bensì aspetti complementari del piano divino. Questa svolta ermeneutica è stata ulteriormente ribadita dal documento del 2015 della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili, che sottolinea l’irrevocabilità della vocazione di Israele e la necessità di riconoscere la lettura ebraica della Scrittura come una tradizione viva e legittima. La fine dell’esegesi adversus Judaeos segna così una svolta storica e teologica. I testi evangelici, letti nel loro contesto, non condannano l’ebraismo, ma testimoniano la complessità del giudaismo del I secolo. Questa nuova comprensione apre la strada a un dialogo rispettoso e fraterno tra cristianesimo ed ebraismo, che trova applicazione anche nelle iniziative contemporanee di incontro e studio condiviso.

La “Regola della Comunità” nei rotoli del Mar Morto

I frutti del dialogo

Il cambiamento ermeneutico dei testi biblici ha prodotto risultati concreti che vanno ben oltre le dichiarazioni formali. La Chiesa ha compiuto gesti simbolici di grande valore e impatto. Nel 1986 Giovanni Paolo II fu il primo Papa a visitare una sinagoga, quella di Roma, definendo gli ebrei “fratelli maggiori”. Nel 2000, sempre Wojtyla, pregò al Muro del Pianto e vi inserì un biglietto con una richiesta di perdono per le colpe del passato. Anche i suoi successori hanno proseguito questa tradizione: Benedetto XVI si recò al Muro del Pianto nel 2009, e Papa Francesco vi fece visita nel 2014, confermando l’impegno costante della Chiesa nel dialogo ebraico-cristiano. Anche l’ebraismo ha compiuto passi significativi nel dialogo con il cristianesimo. Nel 2000, oltre duecento rabbini e studiosi ebrei firmarono Dabru Emet (“Dite la verità”: cf. Zc 8,16), un documento che rappresenta una presa di posizione coraggiosa e innovativa, in cui si riconosce che ebrei e cristiani adorano lo stesso Dio e che il cristianesimo non è più una religione riservata esclusivamente ai Gentili. Dabru Emet segnò una svolta nella riflessione ebraica moderna sul cristianesimo, invitando a una comprensione più equilibrata e storicamente consapevole dei secoli di interazioni tra le due fedi. Quindici anni dopo, nel 2015, un gruppo di rabbini ortodossi pubblicò To Do the Will of Our Father in Heaven (“Fare la volontà del nostro Padre in cielo”), sottolineando che, dopo quasi due millenni di ostilità e distanziamento reciproco, si apriva una storica opportunità di dialogo e collaborazione. In questo testo, gli autori evidenziano la necessità di impegnarsi concretamente per costruire relazioni basate sul rispetto reciproco e sulla responsabilità morale condivisa, riconoscendo che la pace e la giustizia tra i popoli non possono prescindere dalla comprensione reciproca delle rispettive tradizioni religiose. Sul piano della ricerca biblica, ebrei e cristiani hanno avviato iniziative congiunte di studio dei testi comuni. In Italia, progetti come la Bibbia dell’Amicizia, curata da Marco Cassuto Morselli e Giulio Michelini, rappresentano una novità significativa: studiosi delle due tradizioni commentano insieme la Scrittura, con prefazioni di Papa Francesco e del rabbino Abraham Skorka, a testimonianza del sostegno istituzionale e simbolico all’iniziativa. All’estero, esperienze simili esistevano già, come dimostrano vari progetti di studio congiunto e commento del Nuovo Testamento da parte di studiosi ebrei. Un esempio recente è il volume Il Nuovo Testamento letto dagli ebrei, pubblicato in Italia nel 2023 dalla Queriniana, traduzione della seconda edizione ampliata del 2017, che raccoglie contributi di studiosi ebrei e offre una lettura approfondita del Nuovo Testamento alla luce del contesto giudaico. In questo panorama di collaborazione scientifica si inseriscono anche i Colloqui di Camaldoli, un’iniziativa annuale che dal 1980 riunisce studiosi, rabbini e teologi cristiani per approfondire temi biblici e teologici di interesse comune. Questi incontri, che si svolgono presso l’Eremo di Camaldoli, rappresentano una delle esperienze più longeve e significative del dialogo ebraico-cristiano in Italia, offrendo uno spazio privilegiato per il confronto accademico e spirituale tra le due tradizioni. Anche sul piano educativo, il dialogo ebraico-cristiano ha prodotto risultati concreti. La collaborazione tra la Conferenza Episcopale Italiana e l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane ha dato vita alle 16 schede per conoscere l’ebraismo, pensate in primo luogo per le scuole ma utilizzabili anche in contesti più ampi. Questi strumenti favoriscono la conoscenza reciproca e la formazione interculturale, mostrando come la ricerca condivisa e i gesti simbolici di riconciliazione possano tradursi in iniziative concrete e accessibili, volte a una comprensione più profonda e rispettosa tra le due tradizioni.

Giovanni Paolo II al Muro del Pianto

Le sfide del presente

Nonostante i significativi progressi nel dialogo ebraico-cristiano, il cammino non è privo di ostacoli. La crescente secolarizzazione mette in discussione l’importanza stessa del dialogo religioso, e tra le nuove generazioni l’urgenza di questa riconciliazione può apparire meno immediata, pur non mancando segnali di interesse e partecipazione. È il caso, ad esempio, di realtà come la Sezione Giovani dell’Amicizia Ebraico-Cristiana, che in Italia coinvolge giovani cristiani ed ebrei in incontri, studi biblici condivisi e attività culturali, promuovendo un dialogo diretto e concreto. Il riemergere di nuove forme di antisemitismo, talvolta mascherate da critica politica, rappresenta comunque una minaccia concreta ai progressi compiuti. Come ha affermato Papa Francesco nel 2013 ai rappresentanti della Comunità Ebraica di Roma: «È una contraddizione che un cristiano sia antisemita. Un po’ le sue radici sono ebree. Un cristiano non può essere antisemita! L’antisemitismo sia bandito dal cuore e dalla vita di ogni uomo e di ogni donna!». Parole che restano profetiche in un’epoca in cui l’odio antiebraico continua a riprendere forme antiche e nuove.

Foto di gruppo dell’Amicizia Ebraico-Cristiana Giovani

Verso il futuro: fratelli nella diversità

Sessant’anni dopo Nostra Aetate, il dialogo ebraico-cristiano si presenta oggi come un modello per altri rapporti interreligiosi. Ha dimostrato che è possibile trasformare secoli di ostilità in collaborazione rispettosa, pur mantenendo le proprie identità specifiche. L’immagine biblica che meglio descrive questo rapporto rimane quella paolina dell’olivo in Romani 11: i cristiani sono rami di olivo selvatico innestati sull’olivo buono di Israele. Paolo chiarisce: “Non sei tu che porti la radice, ma la radice che ti porta” (Rm 11,18). Due tradizioni che condividono la stessa radice divina, ma che crescono come rami diversi dello stesso albero. Il futuro del dialogo dipenderà dalla capacità di trasmettere alle nuove generazioni non solo la memoria del passato, ma anche la bellezza di un presente in cui ebrei e cristiani possono leggere insieme le Scritture, pregare per la pace e lavorare per la giustizia. Non per diventare uguali, ma per riconoscere che nella diversità ciascuna tradizione può offrire doni unici e arricchire reciprocamente la comprensione della verità e dell’incontro con Dio.

Nostra Aetate ci ha insegnato che la Parola di Dio è abbastanza grande da contenere interpretazioni diverse, abbastanza profonda da nutrire speranze differenti e abbastanza luminosa da illuminare cammini diversi verso lo stesso Dio di Abramo, che non si pente mai dei doni fatti e della chiamata rivolta ai suoi figli (cf. Rm 11,29).

CREATO DA
Servizio informa…