INDUISMO Conoscenza - Il sentiero

Le luci del Diwali - New Delhi - Foto di Amit Jalbhanda

Il sentiero

L’Induismo non ha un’essenza. Cercare la formula che racchiuda l’essenza dell’Induismo è davvero arduo, poiché esso non è riducibile a nessun principio, sfugge ad ogni formula riassuntiva. Non a caso l’Induismo, a differenza di altre tradizioni religiose, non ha un fondatore, non possiede un unico libro sacro (i suoi testi sono senza autore - apauruṣeyā - perché sono parola primordiale), non possiede un sistema di credenze e una soteriologia unitari, non fa riferimento ad un’unica autorità centrale e la sua storia si estende per oltre cinquemila anni. Tutto ciò rende estremamente variegate e molteplici, finanche contraddittorie, le sue tradizioni (sampradāya), vie e scuole dottrinali; per tale motivo si suole dire che l’Induismo è più un insieme di religioni che una sola religione. Chi crede in Dio, ma anche chi non crede, un monoteista e un politeista può essere un buon hindū. Lo stesso termine “Induismo” è una parola persiana di origine geografica. Indicava le popolazioni che vivevano oltre il fiume Indo e solo successivamente venne utilizzato per distinguerlo da altre religioni esistenti. Nella sua accezione corrente, il termine Induismo ha avuto inizio soltanto nel XIX secolo, quando fu utilizzato dai riformatori hindū e dagli orientalisti occidentali.

L’Induismo ha invece un’esistenza: hindū è chi riconosce il suo (dover) essere (dharma) e vive il suo karma, cioè, agisce di conseguenza concretizzando così il suo dharma personale (svadharma). Ecco perché, se l’Induismo dovesse darsi un nome si chiamerebbe sanātana dharma, cioè il dharma senza fine, il dharma primordiale, eterno, comune a tutta l’umanità. Il dharma è la partecipazione di tutti e di ciascuno, esseri umani, cosmo e divinità al compito di mantenere coeso il Reale, di sostenere l’armonia, l’ordine che rappresenta l’essenza ontica e etica dell’esistenza, il «benessere del mondo» (lokasaṃgraha), dirà la Bhagavadgītā (3, 20). Chi viola quest’ordine, pecca, concorre all’innalzamento del livello di ingiustizia (adharma), e suscita la misericordia di Dio che si manifesta (avatāra).

«Tutte le volte che la giustizia (dharma) decade, o Arjuna, e l’ingiustizia sia leva (adharma), io emetto (una parte) di me. Per la protezione dei buoni, per la distruzione dei malvagi, per consolidare la giustizia (dharma), io rinasco età dopo età. Colui che conosce secondo verità la mia nascita e il mio agire divini, abbandonato il corpo, non più rinasce ma viene a me, o Arjuna. Liberi da passione, timore ed ira, identificati con me, rifugiati in me; molti, purificati dall’ascesi della conoscenza, sono entrati nel mio essere. In qualsiasi maniera gli esseri umani si rivolgono a me, io ricambio il loro amore. In tutti i modi gli esseri umani, o Arjuna, seguono la mia strada» (Bhagavadgītā 4, 7-11)

Nell’Induismo, dunque, la pratica precede la credenza. Ciò che un hindū fa è più importante di ciò in cui crede. L’adesione al dharma non consiste tanto nell’accettazione di certe credenze, quanto nell’adempimento di certi doveri definiti dalla stratificazione del dharma. Ne consegue che dharma è in grado di trovare molte vie attraverso cui realizzarsi. Questo spiega il carattere tollerante dell’Induismo: dottrinalmente aperto alle diverse vie verso il divino, ma inflessibile dal punto di vista del dharma e dei suoi adempimenti. In tal senso l’orto prassi è più rilevante dell’ortodossia.

La storia

La storia spirituale del sanātana dharma è organizzata intorno a quattro nuclei principali:

  • Il periodo prevedico (dal 2500-1500 a.C. circa) al cui interno si trovano: la civiltà della valle dell’Indo e la cultura dravidica. Alcuni elementi dell’Induismo risalgono a questo periodo.
  • La Rivelazione (śruti), ovvero “ciò che è stato ascoltato dagli antichi veggenti (ṛṣi)” (1500-500 a.C. circa). In questo periodo si assiste all’ascesa della cultura degli ariani, popolazione proveniente dall’Iran o dalla Mongolia, in contrapposizione a quella dravidica. Durante questo periodo viene formulato il Veda. Il dharma si rivela nel Veda, e la fonte ultima del dharma è il Veda.

La Tradizione (sṃṛti), ovvero “ciò che è stato ricordato” (500 a.C.- 500 d.C.), rappresenta la seconda fonte del dharma. In essa si trovano:

  • a) i testi riguardanti la corretta esecuzione dei sacrifici, detti Kalpa-sūtra. Essi sono classificati in testi afferenti ai riti solenni o pubblici (Śrauta-sūtra), ai riti domestici (Gṛhya-sūtra) e ai manuali legislativi relativi all’etica personale e sociale (Dharma-sūtra e Dharma- śāstra, di cui il più conosciuto è il Manu-sṃṛti). È l’epoca dei grandi “scismi” (buddismo e jainismo).
  • b) Le grandi narrazioni epiche (Itihāsa): il Mahābharata, che contiene la Bhagavadgītā, e il Ramayana.
  • c) I trattati mitologici e rituali noti come Purāṇa, affini alle grandi narrazioni epiche per linguaggio. Essi ripresentano l’annuncio del dharma in una nuova forma. Itihāsa e Purāṇa sono conosciuti come il “quinto Veda”.
  • d) Inizio dello sviluppo delle grandi tradizioni vaiṣṇava, śaiva e śākta legate rispettivamente a Viṣṇu, Śiva e la Devī.
  • I Commentari (bhāṣya) (500 d.C. – 1500 d. C.)

I Commentari (bhāṣya) (500 d.C. – 1500 d. C.)

  • a) La nascita dei grandi sistemi filosofico-teologici (darśana).
  • b) L’epoca delle grandi religioni vaiṣṇava, śaiva e śākta nelle quali si afferma il teismo e si indirizza la devozione hindū. Il sacrificio vedico, pur non scomparendo del tutto, si sublima nel culto devozionale (pūjā). Quest’ultimo diventa il modo di esprimere l’amore (bhakti) che il credente ha verso la divinità personale e l’amore del Dio verso il credente.
  • c) Sviluppo dei Purāṇa più tardi, della grande letteratura devozionale poetica in sanscrito e lingua dravidica, oltre alla composizione della letteratura tantrica.
  • d) La riforma moderna (1500 d.C. 1950 d. C.). Questo periodo vede il sorgere e il tramontare dell’impero Mughal e di quello britannico e si esaurisce pressappoco con l’indipendenza dell’India.
  • e) Il periodo contemporaneo. In esso c’è un’affermazione su basi identitarie e internazionali dell’Induismo che si pone come una delle più diffuse religioni mondiali, tenendo conto della diaspora hindū.

Veda

I Veda corrispondono a quattro tradizioni: Ṛg, Yajur, Sāma e Atharva. Ad ogni tradizione corrispondono quattro categorie di testi: Saṃhitā, raccolta di inni e mantra; Brāhmaṇa, trattari sull’uso degli inni e dei mantra nell’esecuzione delle cerimonie sacrificali (karman) presenti nei Veda; Āraṇyaka, scritti religiosi e filosofici di meditazione sulle relazioni tra Dio, essere umano e cosmo composti e studiati nelle foreste; Upaniṣad, trattati filosofici di interpretazione mistica e interiorizzante del sacrificio vedico. Gli Āraṇyaka formano con le Upaniṣad la sezione detta “della conoscenza” (jñānakāṇḍa) della Rivelazione vedica. Essa completa la sezione detta “dell’azione rituale” (karmakāṇḍa), rappresentata dalle prime due categorie di testi vedici.

Tempio di Mīnākṣī, Madurai; Tempio Prambanan, Giava – Foto G. di Cantele; Durga Puja – Foto di Adhari Park

Darśana

La filosofia e la teologia hindū si esprimono soprattutto attraverso i commentari ai testi sacri della Rivelazione e della Tradizione. I commentari hanno lo scopo di “spiegare” quello che è già presente negli stessi testi, spesso espresso in aforismi. L’enorme attività di spiegazione creativa venne codificata intorno al periodo 500 d.c. 1500 d.C. nell’elenco canonico di sei sistemi considerati ortodossi (āstika), perché riconoscevano l’autorità dei Veda, rispetto ai sistemi eterodossi (nāstika) che rifiutavano i Veda (buddismo e jainismo). I sei sistemi ortodossi sono:

  1. Il sāṃkhya, o scuola della “enumerazione” degli elementi costitutivi del Reale che nella loro interazione determinano l’esperienza umana e cosmica. La filosofia presuppone un dualismo ontologico tra la materia (prakṛti) e il Sé (puruṣa) ed è proprio da questa relazione-nella-separazione tra questi due poli che sgorga la consapevolezza.
  2. Lo yoga di Patañjali che presuppone la metafisica del sāṃkhya e poi procede per progressivi stadi di coscienza/consapevolezza verso la liberazione finale.
  3. La purva-mīmāṃsā, la scuola esegetica vedica che si concentra sull’azione corretta in ottemperanza al dharma. L’esecuzione corretta del sacrificio produce un potere trascendente (apūrva) la cui ricompensa sarà il cielo dopo la morte.
  4. La uttara-mīmāṃsā o anche vedānta, la più famosa scuola filosofico-teologica hindū, si concentra sulla conoscenza (jñāna) corretta del brahman per raggiungere la liberazione finale (mokṣa). Al suo interno la scuola è variegata. Si hanno almeno tre tradizioni: advaita-vedanta (vedānta aduale) del maestro Saṅkara (788-820), viśiṣṭādvaita (vedānta qualificato) del maestro Rāmānuja (1050-1137) e dvaita-vedānta (vedanta duale) del maestro Madhva (1238-1317).
  5. Il nyāya, o scuola della logica, considera la conoscenza logica quale strumento per il raggiungimento della suprema felicità (niḥśreyasa) eliminando i residui karmici relativi alla falsa conoscenza così da ottenere la liberazione.
  6. Il vaiśeṣika, associato al nyāya, è la scuola filosofica atomistica tesa alla conoscenza delle cose nella loro distinzione e secondo la rispettiva individualità. Tale conoscenza, tesa sempre alla liberazione della coscienza dell’individuo dall’ignoranza, presuppone che il Reale sia per sua natura atomistico e pluralista.
Dipinto Pahari dal poema Gīta Govinda – Foto di Gaetano Sabetta

Tre fiumi spirituali

La spiritualità dei Veda sublimata nelle Upaniṣad e sintetizzata dalla Bhagavadgītā segue il corso di tre fiumi. Il fiume bianco dell’azione (karma-yoga), il fiume viola della conoscenza (jñāna-yoga) e il fiume rosso dell’amore (bhakti-yoga) e tutti sfociano nell’oceano della liberazione (mokṣa). L’indole, la disposizione, le tendenze naturali (guṇa), le competenze a recepire l’insegnamento (adhikāra) da parte del credente determinano la scelta della via da percorrere, ma la spiritualità hindū non cede mai alla tentazione di scegliere quale dei fiumi sia il migliore. Ad uno sguardo più attento, l’etica (karma), la saggezza estetica (jñana) e l’amore (bhakti) non possono che essere interdipendenti. Per questo la Bhagavadgītā parla, al tempo stesso, dell’esistenza di diverse vie (mārga) di liberazione e della loro sintesi. In essa conoscenza e amore, uniti dall’azione gratuita (niṣkāmakarma), sono le due ali che guidano il credente verso la liberazione.

Dipinto Pahari dal poema Gīta Govinda – Foto di Gaetano Sabetta

Le famiglie religiose

Nel corso nella seconda metà del primo millennio a.C. in seno alle tradizioni hindū la spiritualità dell’amore (bhakti) di Dio (Bhagavan) o della Dea (Bhagavatī) verso il credente e della devozione di questi verso la divinità divenne la più diffusa forma religiosa. L’affermazione del teismo e del sentimento amoroso diede origine a diverse famiglie religiose (saṃpradāya) associate a Viṣṇu, con i suoi innumerevoli avatāra tra cui ricordiamo Kṛṣṇa, detto anche Govinda, presente nei testi della Bhagavadgītā e del Bhāgavataurāṇa e Rāmā principe di Ayodya, così come raccontato nel Rāmāyana. Tra di esse vanno enumerate, non esaustivamente: la śrī saṃpradāya del mestro Rāmānuja, la brahma saṃpradāya del maestro Madhva, la rudra saṃpradāya del maestro Vallabha (1479/1481-1544), la kumāra saṃpradāya del maestro Niṃbārka (XII sec.), gauḍīya saṃpradāya del maestro Caitanya (1486-1533) che in Occidente ha assunto la forma del movimento Hare Krishna. Tra le tradizioni legate a Śiva si possono considerare: gli ordini pāśupata, kālāmikha e kāpālika menzionati nel Mahābhārata, la tradizione dello śaiva-siddhānta del Tamil Nadu e la “scuola śaiva del Kashmir. Infine, l’induismo non può essere compreso se si prescinde dalla figura della Dea (). La Devī è presente a ogni suo livello, brahmano, tantrico e in quello dei villaggi, sia quale divinità aniconica (yantra e yoni), sia nelle forme pan-indiane fauste e feconde - spesso consorti di divinità maschili - come Pārvati, Lakṣmi, Sītā e Rādhā, sia, infine, nelle sue manifestazioni terribili e feroci, come nel caso di Durgā, Kālī e Cāmūṇḍā.

Tempio hindu e sacerdoti – Foto di G. Cantele; Kālī atterra Śiva – Foto di G. Sabetta

Dialogo induismo-cristianesimo

«nell’induismo gli uomini scrutano il mistero divino e lo esprimono con la inesauribile fecondità dei miti e con i penetranti tentativi della filosofia; cercano la liberazione dalle angosce della nostra condizione sia attraverso forme di vita ascetica, sia nella meditazione profonda, sia nel rifugio in Dio con amore e confidenza. [...] La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini.» (Nostra Aetate 2).

Per un approfondimento:

  • G. Flood, L’induismo. Temi, tradizioni, prospettive, Einaudi, Torino 2006.
  • B. Kanakappally - K. Acharya - Gaetano Sabetta - Mariano Iturbe, Dizionario Hindu-Cristiano. Luoghi per il dialogo interreligioso, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2017.
  • R. Panikkar, Il Dharma dell’India. Opera Omnia vol. IV/2, Jaca Book, Milano 2017.
  • G. Sabetta, Sentieri dell’amore di Dio. Risonanze cristiane dal Bhakti Sūtra di Nārada, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2020.
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