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Ortodossia Dialogo

I contenuti del documento di Alessandria:

un tentativo prezioso e interessante di rilettura comune della storia.

L’Introduzione e il suo valore metodologico

Il Documento di Alessandria si compone di una Introduzione, di quattro corposi capitoli centrali - dedicati ciascuno all’analisi di un periodo storico del secondo millennio - e di una Conclusione.

L’Introduzione è particolarmente interessante perché, dopo aver richiamato il documento di Chieti del 2016 e le acquisizioni in esso contenute in ordine alla comprensione degli elementi strutturali fondamentali della Chiesa indivisa, enuncia così lo scopo del documento dedicato al secondo millennio:

Il presente documento prende in esame la storia travagliata del secondo millennio distinguendo quattro periodi e sforzandosi di offrirne, per quanto possibile, una lettura comune; offre inoltre a Ortodossi e Cattolici romani una opportunità preziosa per chiarirsi reciprocamente relativamente a diversi aspetti del dipanarsi della storia, così da promuovere la mutua comprensione e la fiducia che costituiscono prerequisiti essenziali per la riconciliazione, al principio del terzo millennio. Il documento si conclude traendo degli insegnamenti dall’esame compiuto della storia (Doc. Aless. 0.3).

È importante notare come il tentativo che si vuole compiere è innanzitutto quello di giungere ad una lettura comune dei periodi storici; ma per fare ciò si ammette esplicitamente che il metodo del confronto deve consistere nello spiegarsi reciprocamente le differenti valutazioni e i giudizi sui punti salienti della storia: in questo modo non si nega l’esistenza di vedute differenti, ma si confida nella possibilità che la reciproca narrazione con intento esplicativo possa dipanare quelle letture che hanno portato incomprensione e sfiducia, o che da tali realtà negative sono state influenzate. Questo aspetto metodologico è della massima importanza, perché dice apertamente che è il dialogo, inteso come reciproco alternarsi di ascolto e di enunciazione, come assidua contestualizzazione e disponibilità ad accogliere ulteriori fattori di comprensione di ciò che si potrebbe ritenere già noto, la via che può portare – attraverso la narrazione della comprensione che ciascuna delle due parti ha costruito di un’unica storia accaduta – ad una visione che possa riconoscere anche le ragioni dell’altro, fino a poterle integrare in una lettura comune con le proprie. E si auspica fin dall’inizio che questo metodo possa valere anche per affrontare le questioni contemporanee e attuali.

I quattro periodi individuati, elencati in base ai titoli dei paragrafi corrispondenti, sono:

  1. Dal 1054 al Concilio di Firenze (1438-1439)
  2. Dalla Riforma al XVIII secolo
  3. Gli sviluppi del XIX secolo
  4. I secoli XX e XXI: ritorno alle fonti e riavvicinamento

Li prendiamo in esame separatamente, per segnalare i punti salienti e le acquisizioni che più ci paiono significative, rimandando al testo complessivo chi volesse approfondire le diverse questioni.

La bolla di unione del concilio di Firenze

Dal 1054 al Concilio di Firenze (1438-1439)

Questo periodo, cui viene comprensibilmente dedicato il capitolo più corposo del documento, contiene al suo interno anche il tempo in cui si “cristallizzò” la situazione di separazione tra la Chiesa Cattolica e quella Ortodossa, che viene così descritto:

1.1. All’inizio del secondo millennio, difficoltà e disaccordi tra Est e Ovest furono esacerbati da fattori culturali e politici. Le scomuniche del 1054 aggravarono il processo di allontanamento tra Est e Ovest. Le Chiese orientale e occidentale fecero dei tentativi per ristabilire la loro unità. Comunque, come risultato delle crociate, e in particolare della conquista di Costantinopoli da parte della quarta crociata (1204), la rottura del 1054 divenne tristemente più profonda.

All’interno di questo quadro sintetico ci si sofferma su alcuni eventi particolari che abbracciano tanto la Chiesa d’Occidente quanto quella d’Oriente, considerate sia nelle loro dinamiche interne, sia in quelle comuni. Così vengono prese in esame: la riforma di Gregorio VII per sottrarre al potere secolare la nomina dei vescovi e i riflessi che essa ebbe nella crescita “della responsabilità della Sede romana nel preservare la Chiesa occidentale da interferenze estranee e abusi interni” (1.2); lo sviluppo successivo di una “ecclesiologia a carattere più giuridico” anche grazie all’accoglimento delle false decretali e della Donazione di Costantino; le conseguenze della fondazione degli ordini mendicanti, non sottoposti ai vescovi, in ordine alla promozione di una visione del papato come “depositario della cura pastorale nei confronti di tutta la Chiesa”, la cui plenitudo postestatis (pienezza del potere) e sollicitudo omnium Ecclesiarum (sollecitudine per tutte le Chiese) venivano sempre più a consolidare “la visione del papa come del capo che governa tutto il corpo ecclesiale”, e dei vescovi come di coloro che vengono “chiamati a condividere la sua sollecitudine, prendendosi cura delle loro diocesi” (1.4). Viene poi sottolineato come tuttavia permanesse nella Chiesa latina il principio della sinodalità, attraverso il Sinodo romano, composto dai “vescovi della provincia romana e quanti fossero presenti a Roma”, che era lo strumento di governo del pontefice, il quale decideva come primus su quanto veniva discusso (1.5); tale strumento sfociò poi nel Concistoro, ovvero nell’assemblea dei cardinali, che ricevettero tra XI e XII secolo il diritto esclusivo di eleggere il papa, grazie al loro legame (attraverso i tituli cardinalizi) con la Chiesa di Roma (1.6). Sempre il tema della riforma della Chiesa latina porta l’attenzione sui quattro Concilii Lateranensi convocati dai papi tra il 1123 e il 1215: si mette così in luce come, oltre a proseguire in questo compito, il concilio Lateranense IV stabilì il primato della Chiesa romana su tutte le Chiese, e il suo essere mater et magistra di tutti i fedeli di Cristo, enunciato che tuttavia non venne accettato dai Greci (1.7).

I paragrafi 1.8 e 1.9 sono dedicati al tema delle crociate, di cui si sottolinea il fatto che, benché convocate a seguito di un appello dell’Imperatore Bizantino, “si svilupparono in un violento antagonismo tra Latini e Greci” (1.8) dovuto in primo luogo allo stabilimento di gerarchie latine in parallelo o al posto dei patriarcati Greci, all’abolizione dell’autocefalia della Chiesa di Cipro e alla sottomissione forzata dei vescovi Greci all’obbedienza romana. Viene poi riservato uno spazio particolare alla quarta crociata (1204) che “condusse al saccheggio di Costantinopoli e a stabilire gerarchie latine parallele nelle rimanenti antiche sedi della Chiesa greca” (1.9); in seguito a tali fatti si evidenzia come vi fu la sottomissione del clero greco alle usanze latine, e – più in generale – come si sviluppò una letteratura polemica e denigratoria relativamente agli usi orientali, definiti “errori dei Greci scismatici”.

Dopo questi paragrafi largamente dedicati soprattutto alla Chiesa d’Occidente, il documento prosegue segnalando come ad Est non mancò chi continuò a perseguire un intento di riconciliazione e di comprensione teologica con la Chiesa latina (1.10) e si offre poi una panoramica sul funzionamento dell’istituzione conciliare nella Chiesa orientale, mettendo in luce il ruolo del sinodo endemousa (permanente) che periodicamente si riuniva avendo come protos (primo) il Patriarca di Costantinopoli e radunando i rappresentanti degli altri Patriarchi e i vescovi che si trovavano in città (1.11). Si menzionano poi l’abortito tentativo di unione (1.12) perseguito dal Concilio Lionese II (1274) e i sinodi costantinopolitani dedicati alla controversia esicasta, visti come esempi di permanenza della pratica della sinodalità in Oriente (1.13), per riportare poi il focus sull’Occidente, con il conflitto tra Bonifacio VII e il re di Francia che porterà poi alla cosiddetta “cattività avignonese” (1.14), e che vedrà tra XIV e XV secolo la crisi della Chiesa latina da cui si genererà – a fronte della contemporanea elezione di due e poi tre papi – il Concilio di Costanza, che svilupperà la tesi ecclesiologica della supremazia del concilio generale sul pontefice, detta “conciliarismo”, che tuttavia rappresentava anche una deriva in senso rappresentativo-corporativo della prassi sinodale (1.15-1.16).

L’ultima parte del capitolo è dedicata agli avvenimenti collegati al Concilio di Ferrara-Firenze e alla proclamazione della bolla di unione Laetentur coeli (1439), poi non recepita dalle Chiese Orientali. Si sottolinea come le affermazioni del Concilio relative al primato papale avessero quale primario obiettivo “il rigetto delle tesi conciliariste di Basilea” (1.18), e che esse vennero in un primo momento accettate dai Greci solo con alcune clausole che subordinavano le affermazioni sul primato al mantenimento dei decreti dei precedenti Concilii ecumenici e dei sacri Canoni, alla menzione degli altri Patriarcati della Pentarchia e al mantenimento dei privilegi e dei diritti dei Patriarchi; nello stesso tempo, il documento afferma: “In riferimento a tutte le questioni controverse, il concilio stabilì che le differenze nelle formulazioni dottrinali o nella pratica canonica non avevano influenza sull’unità della fede” (1.19).

Il Concilio di Trento (dipinto di Elia Naurizio)

Dalla Riforma al XVIII secolo

Il secondo periodo storico preso in considerazione si apre con questo sommario dei principali temi affrontati:

2.1. Due nuovi e imponenti sviluppi hanno segnato il rapporto tra sinodalità e primato nei secoli XVI-XVIII: la Riforma protestante e le unioni stabilite tra Roma e varie Chiese orientali. Il sorgere del Protestantesimo, nonostante dividesse ulteriormente l’Occidente, portò a contatti con l’Oriente e perfino a speranze di unione, almeno durante la fase preliminare del loro incontro. La sinodalità era ancora praticata all’Est durante questo difficile periodo, e le decisioni di parecchi sinodi tenuti in quel tempo mostrano quali fossero gli aspetti teologici che separavano i Cattolici romani, gli Ortodossi e i Protestanti. Il fenomeno delle unioni fu vissuto dagli Ortodossi come una ferita e una minaccia, come foriero di ulteriori divisioni nell’Est, e come una forma di proselitismo.

Relativamente al primo tema, il documento sottolinea come il Concilio di Trento rinvigorì l’istituto dei sinodi provinciali, ai quali venne dato il compito di suggerire al papa terne di nomi tra cui scegliere i vescovi da eleggere, e come nel postconcilio il papato “assunse la guida delle riforme tridentine e la Chiesa cattolica romana divenne vieppiù centralizzata relativamente alla dottrina, alla liturgia e all’attività missionaria”, così da rafforzare anche sul piano dottrinale l’autorità papale, la fedeltà alla quale divenne uno dei segni distintivi dell’identità confessionale cattolica in contrapposizione al Protestantesimo (2.2), mentre non venivano meno alcune tendenze conciliariste, soprattutto in Francia e Germania (2.3).

Parallelamente, volgendo lo sguardo a Est, si sottolinea come il sistema giuridico del Millet, vigente nell’Impero ottomano, rendesse tutti gli Ortodossi – quale che fosse la loro etnia – dipendenti per le questioni ecclesiastiche e civili dal Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, rinforzando in tal modo la posizione di quest’ultimo all’interno della Chiesa Ortodossa e di fronte agli altri Patriarcati. Nonostante ciò, la sinodalità non scomparve e rimase il metodo per risolvere questioni quali il riconoscimento del titolo patriarcale al metropolita di Mosca e il giudizio sulla confessione di fede di Pietro Mohyla, metropolita di Kiev (2.4).

Pietro Mohyla, Metropolita di Kiev

Mentre il par. 2.5 ricorda il cristallizzarsi nella polemica teologica della tematica della supremazia papale e la sua conseguente trattazione o in modo polemico o in modo apologetico, il par. 2.6 è dedicato al tema delle unioni tra Chiese orientali e Roma, avvenute nei secoli XVI-XVIII, esprimendo questo giudizio

2.6. […] I motivi alla base di queste unioni sono sempre stati oggetto di contestazione. Il genuino desiderio dell’unità della Chiesa non può essere escluso dalla considerazione. Spesso fattori religiosi e politici si intrecciarono. Le unioni spesso appaiono come tentativi di affrancarsi da situazioni locali difficili. Alcuni Ruteni al tempo della Confederazione Polacco-Lituana si unirono a Roma nel Sinodo di Brest (1596). Altre unioni avvennero in Croazia (1611), a Uzhorod (1646), in Transilvania (1700-1701) e in Serbia (1777). Gli Ortodossi di lingua albanese che alla fine del XV secolo, dopo la conquista Turca, erano scappati nell’Italia meridionale, successivamente entrarono in comunione con Roma. Nel 1724, in un momento di sede patriarcale vacante ad Antiochia, la comunità di Damasco elesse un patriarca pro-Cattolico, che prese il nome di Cirillo VI e fu riconosciuto dal papa nel 1729, formando così la Chiesa Cattolica Melchita. Vi furono anche unioni con altre Chiese.

Viene infine menzionata la soppressione del Patriarcato di Mosca, ad opera dello Zar Pietro I, che riformò pesantemente l’organizzazione ecclesiale seguendo un modello protestante e facendo prevalere le strutture sinodali, che tuttavia erano sotto la pesante influenza dello stato (2.7).

Il Concilio Vaticano I

Gli sviluppi del XIX secolo

La trattazione del XIX secolo si apre con la constatazione della precarietà della situazione della Chiesa cattolica romana in Europa, a seguito della Rivoluzione francese, dell’epoca napoleonica e del tentativo di molti stati di mantenere il controllo su di essa. Viene sottolineato come “per evitare le interferenze statali negli affari ecclesiastici, il papato adottò la dottrina della Chiesa come ‘società perfetta’, intendendo che la Chiesa era una società indipendente, autonoma e sovrana nella sua propria sfera di competenza, così come lo stato era sovrano negli affari temporali. La Chiesa affermò di essere depositaria di un sistema legale originale, ovvero non derivato o conferito dallo stato” (3.1). Vengono poi ricordati i tentativi (infruttuosi) di comunicazione tra Pio IX, assertore della suprema autorità del Romano Pontefice, e le Chiese ortodosse, che suscitarono la risposta degli altri Patriarchi della Pentarchia e il rifiuto dell’invito a partecipare al Concilio Vaticano I, motivato proprio con il fatto che la natura dell’autorità papale costituiva il principale motivo di disaccordo (3.2-3.3).

Sul versante orientale, si ricorda come il secolo XIX abbia visto la Chiesa ortodossa fronteggiare l’esacerbarsi del nazionalismo, compreso il tentativo di integrarlo nell’organizzazione ecclesiale, attraverso il Grande Concilio tenuto a Costantinopoli nel 1872, che condannò l’etnofiletismo a partire dallo scisma della Bulgaria. La progressiva disgregazione dell’Impero ottomano e la creazione degli stati nazionali nei Balcani portarono, il Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli a concedere il tomos di autocefalia alle Chiese di Grecia, Serbia e Romania, “con lo scopo di esprimere e supportare l’unità eucaristica della Chiesa in questa nuova situazione” (3.4).

La gran parte del capitolo viene poi dedicata al Concilio Vaticano I, poiché si afferma che il suo insegnamento sul papato “ha fatto sorgere molta tensione tra i Cattolici Romani e gli Ortodossi” (3.5). Nello stesso tempo, si ricorda come la costituzione Pastor Aeternus, avente a tema l’infallibilità papale, avrebbe dovuto essere seguita da un altro testo, dedicato al tema dell’episcopato e della Chiesa nel suo insieme; esso, tuttavia, non vide la luce a motivo delle vicende politico militari che imposero la sospensione del Concilio, e che lasciò così una ecclesiologia sbilanciata sul papato; inoltre, l’accento posto sull’autorità papale era dovuto alla situazione storica dell’Europa occidentale, che vedeva il risorgere di tendenze conciliariste supportate dagli stati, così da spingere la santa Sede a proporre un insegnamento che aveva lo scopo di respingere una minaccia all’unità e indipendenza della Chiesa.

Nel riassumere i contenuti della Pastor Aeternus viene poi sottolineato che benché in essa si insegnasse che “il papa ha giurisdizione episcopale ordinaria e immediata sulla Chiesa nel suo insieme, nondimeno ribadiva che la potestà di ogni vescovo è ‘affermata, confermata e rivendicata’ dal papa, e affermava che il ‘vincolo di comunione’ della Chiesa è un vincolo ‘di comunione e di professione della stessa fede’ (3.6). Relativamente al tema dell’infallibilità papale, il documento ricorda che “il concilio definì non l’infallibilità personale del papa, ma la sua capacità, a certe condizioni, di proclamare infallibilmente la fede della Chiesa”, e che l’irreformabilità di tali definizioni ex sese (di per sé) e non per il consenso della Chiesa, non separava il papa dalla comunione e dalla fede della Chiesa, ma dichiarava che tali definizioni non necessitano di ulteriore ratifica (3.7). Il giudizio derivante da queste affermazioni è quello secondo cui il Vaticano I “rinforzò la tendenza prevalente nell’ecclesiologia occidentale successiva al Laterano IV, che tenne fermo il principio in base al quale la Chiesa universale aveva priorità sulle Chiese particolari e possedeva la sua propria struttura sopra di queste” (3.8), per cui il papa non era semplicemente il vescovo della Chiesa locale di Roma, ma il pastore dell’intera Chiesa.

Dopo aver menzionato il rifiuto del Vaticano I da parte di quei cattolici che formeranno la “Chiesa Veterocattolica” e qualche malumore originatosi inizialmente nelle Chiese Orientali Cattoliche, si prende in esame la reazione ortodossa che ne considerò inaccettabile l’insegnamento, ritenendo l’ecclesiologia che ne deriva un serio allontanamento dalla tradizione canonica dei Padri della Chiesa e dei Concilii ecumenici in quanto oscura la cattolicità di ogni singola Chiesa locale e pone a capo della Chiesa un uomo, mortale e peccatore, “al posto del senza peccato e immortale Dio-uomo Cristo”, affermando inoltre che nessuno ha giurisdizione sulla Chiesa nel suo insieme. Relativamente all’infallibilità, “la Chiesa ortodossa notò inoltre che l’infallibilità appartiene alla Chiesa nel suo insieme, come si esprime nei concilii recepiti da tutto il popolo di Dio”, anche se si ammette che questi argomenti spesso vennero enunciati in modo polemico, e non in un contesto storico-critico (3.10).

L’esame del secolo XIX si conclude menzionando l’opera di papa Leone XIII, che riconobbe i diritti particolari delle Chiese Cattoliche Orientali e mostrò un approccio rispettoso alle tradizioni dell’Oriente cristiano, e la risposta che il suo invito all’unità ottenne da parte del Patriarca Ecumenico Antimo VII, che esprimeva una opinione fortemente negativa circa l’uniatismo e rifiutava di riconoscere il primato di giurisdizione papale (3.11).

Paolo VI e Athenagoras

I secoli XX e XXI: ritorno alle fonti e riavvicinamento

L’ultimo paragrafo di contenuto storico, avente come oggetto il secolo XX e l’inizio del terzo millennio, inizia sottolineando come questo sia stato un periodo caratterizzato dal comune ritorno alle fonti bibliche, patristiche e liturgiche, che ha portato beneficio alle relazioni cattolico-ortodosse (4.1). Relativamente al tema della sinodalità, viene in primo luogo menzionato lo sviluppo del concetto di sobornost’ avvenuto in Russia come reazione alla rigida impronta statalista del sinodo voluto da Pietro il Grande, che mise in primo piano il tema della sinodalità/cattolicità come caratteristica intrinseca della Chiesa tutta, comprendente la partecipazione di tutti i battezzati alla sua vita, e si realizzò concretamente nel Concilio di Mosca del 1917-18 (4.2), divenendo poi un tema capace di arricchire tanto l’ecclesiologia cattolica quanto quella ortodossa.

Sul versante occidentale, un’analoga riscoperta della Chiesa come comunione fu promossa dalla Scuola di Tubinga, che nel recupero delle fonti patristiche ripropose una concezione ecclesiologica di matrice trinitaria, nella quale vi è spazio sia per l’unità che per la diversità, così come espresse nell’immagine del Corpo di Cristo applicata tanto ai fedeli, quanto alle chiese locali, che vengono così comprese come luoghi di manifestazione della Chiesa universale, e che da questa partecipazione all’universalità della Chiesa traggono il loro valore in quanto comunità locali eucaristiche (4.3). Proprio l’ecclesiologia eucaristica, “che vede la Chiesa locale radunata intorno al suo vescovo per la celebrazione dell’Eucaristia come una manifestazione della Chiesa universale” (4.4), viene riconosciuta come uno dei risultati più importanti del ritorno alle fonti e come il punto centrale della riflessione ecclesiologica. Tale concezione – si sottolinea – viene accolta tanto nel Concilio Vaticano II, quanto nel Santo e Grande Concilio della Chiesa ortodossa tenuto a Creta nel 2016, rimarcando l’importanza di una ripresa approfondita di queste due assemblee conciliari.

Un punto su cui si concentrano i paragrafi 4.5 e 4.6 sono gli sforzi di approfondimento della collaborazione tra le Chiese ortodosse autocefale che si sono sviluppati dall’inizio del XX secolo, e che hanno impegnato il patriarcato di Costantinopoli nel promuovere incontri panortodossi in vista della convocazione di un Santo e Grande Concilio. Dopo la seconda guerra mondiale il patriarca Atenagora continuò questa azione preparatoria, che culminò – dopo la sua morte - nella convocazione dell’assise di Creta per il 2016, originariamente concordata con tutti i primati delle Chiese ortodosse e che, secondo quanto affermato nel messaggio conclusivo, mostrava che “La Chiesa Ortodossa esprime la sua unità e cattolicità nel Concilio”.

Anche a Occidente si nota come, a seguito del Concilio Vaticano II, che riprese i temi lasciati in sospeso dal Concilio Vaticano I, Paolo VI istituì il Sinodo dei Vescovi, a seguito di un importante approfondimento sulla loro responsabilità non solo per la propria Chiesa locale, ma anche per la Chiesa nel suo insieme (4.7). Un paragrafo (4.8) viene poi dedicato all’incontro tra Papa Paolo VI e il Patriarca Atenagora, avvenuto nel 1964, e all’abolizione delle reciproche scomuniche del 1054, avvenuta il 7 dicembre 1965, che seguiva l’esplicito riconoscimento – da pare del Concilio Vaticano II – che le Chiese Orientali possiedono veri sacramenti, e soprattutto la successione apostolica, il sacerdozio e l’Eucaristia. In conclusione si sottolinea come nel 1995, con l’enciclica Orientale lumen, papa Giovanni Paolo II abbia espresso la disponibilità a trovare una via di esercizio del primato petrino che, non rinunciando in nulla a quanto è essenziale per la sua missione, sia tuttavia riconoscibile da tutti come un servizio alla carità (4.9); vengono poi menzionati i richiami di papa Francesco relativamente all’importanza del tema della sinodalità come “elemento costitutivo della Chiesa”, e alla necessità che su questo i Cattolici possano imparare dal dialogo con i fratelli e sorelle Ortodossi (4.10).

Conclusione e acquisizioni

Il paragrafo conclusivo del documento di Alessandria non si propone semplicemente come una sintesi di quanto precedentemente enunciato (cfr. i webdoc conoscenza, attualità, pastorale), ma cerca di offrire delle piste di riflessione e di fissare delle acquisizioni che possano rilanciare con basi di mutua comprensione più solide il prosieguo del cammino.

In primo luogo, troviamo l’importante ammissione della complessità del rapporto tra sinodalità e primato, così come si presenta nella Chiesa. Questa, infatti, “non è compresa in modo appropriato come una piramide con un primate che la governi dall’alto, ma nemmeno è compresa in modo appropriato come una federazione di Chiese autosufficienti” (5.1). Ambedue le visioni estreme – purtuttavia, aggiungiamo noi, fatte proprie in determinati periodi storici dalle Chiese – si rivelano inadeguate, e permettono così di riconoscere l’importanza dell’integrazione della visione altrui nella propria. Questo viene esemplificato immediatamente in una frase che affronta apertamente – per svuotarlo di senso – un pregiudizio più volte utilizzato da ambo le parti: si dice infatti che “è chiaro che per i Cattolici romani la sinodalità non è meramente consultiva, e per gli Ortodossi il primato non è meramente onorifico” (5.1). Questo modo di procedere, che fa uso della litote (ovvero di una negazione parziale che è in realtà un’affermazione), in realtà si ispira ad uno stile di enunciazione che ha illustri precedenti nella storia del Cristianesimo (si pensi ad esempio alla definizione di Calcedonia, che utilizzò una serie di avverbi negativi per affermare la modalità con cui divinità e umanità coesistono nella Persona di Cristo), e che pare più appropriato per parlare di ciò che ha a che fare con la fede; in tal modo, infatti, si aiuta meglio a capire che il Mistero di Dio, in tutte le sue declinazioni e sfaccettature, conserva sempre una “eccedenza” rispetto alla nostra comprensione, tale da richiederne una narrazione che accetti di mantenere quelle “polarità” (o, come dice un termine teologico caro all’Ortodossia russa, “antinomie”) necessarie per lasciare aperta la possibilità di una crescita nell’intelligenza, attraverso il contributo della carità. Questo è esattamente richiamato nel documento, quando si richiama l’affermazione del 1979 di Giovanni Paolo II e del Patriarca Demetrio, i quali dissero che “il dialogo della carità… ha aperto la strada a una migliore comprensione delle nostre rispettive posizioni teologiche e dunque a nuovi approcci al lavoro teologico, e ad un nuovo atteggiamento riguardo al comune passato delle nostre Chiese” (5.1).

Il Patriarca Demetrios I

Questi nuovi approcci sono ben riscontrabili nel documento di Alessandria: dalla sua lettura, infatti, si può notare come costantemente si sia cercato di collocare gli avvenimenti – anche tragici o negativi – che hanno interessato le due Chiese nel contesto della loro situazione interna e delle sfide a cui ciascuna di esse doveva fare fronte nella circostanza storica che viveva, così da stemperare la tendenza – tipica della contrapposizione dialettica – a vedere ogni gesto dell’“avversario” come diretto contro di sé. Ancora, abbiamo potuto notare come si sia dato spazio ai tentativi che mostrano la persistenza ininterrotta nelle due Chiese di un anelito all’unità, pur se espresso da ambedue le parti in modi che sono spesso risultati inaccettabili per l’interlocutore o frustrato dalle circostanze storicamente avverse. Infine, anche nell’analisi di eventi negativi o divisivi, si è cercato di mettere in luce come persino nelle situazioni più difficili si siano sempre manifestate possibilità di ripresa del cammino, suscitate dalla presenza dello Spirito Santo.

Si apre così, negli ultimi paragrafi del documento, l’orizzonte del presente e di un cammino – più grande della sola indagine storica e teologica comune – che ancora è da percorrere. Nel riconoscimento della necessaria interrelazione tra sinodalità e primato, e dell’acquisizione preziosa di un ecclesiologia profondamente radicata nel mistero trinitario e in quello eucaristico (5.4), si ribadisce l’importanza che il presente venga riconosciuto non tanto come il luogo in cui applicare meccanicamente delle dottrine immutabili, ma piuttosto come l’occasione per imparare dalla storia le modalità più appropriate in cui ridare efficacia ai principi che governano la Chiesa, e che scaturiscono direttamente dalla preghiera di Cristo per l’unità tra i suoi fedeli (5.5).

Il documento si conclude affermando:

5.6. Dopo aver insieme riflettuto sulla storia del secondo millennio, riconosciamo che una lettura comune delle fonti può ispirare la pratica futura della sinodalità e del primato. Obbedendo al mandato del nostro Signore di amarci gli uni gli altri come egli ci ha amato (Gv 13,34), è nostro dovere di Cristiani sforzarci per l’unità nella fede e nella vita.