ECUMENISMO Conoscenza - Le Chiese ortodosse orientali

Le Chiese ortodosse orientali:

radicate con noi nella fede di Nicea;

in cammino tra le avversità della storia e le consolazioni dello Spirito nel secondo millennio

Conoscenza

Introduzione

Il 26 gennaio 2024 papa Francesco ha incontrato i membri della Commissione Mista Internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa Cattolica e le Chiese Ortodosse Orientali,

che celebrava il ventesimo anniversario della sua costituzione. In tale occasione, papa Francesco ha avuto modo di ricordare ed esaltare «la ricchezza delle tradizioni cristiane da voi rappresentate: copta, siriaca, armena, malankarese, etiopica, eritrea», e ha poi aggiunto:

Il vostro dialogo, che riunisce tanta ricchezza, si è impreziosito nel pensare l’unità nella diversità, come testimonia il primo documento che avete elaborato: in esso si dice che, «radicandosi nella diversità dei contesti culturali, sociali e umani, la Chiesa assume diverse espressioni teologiche della stessa fede e diverse forme di discipline ecclesiastiche, riti liturgici e patrimoni spirituali in ogni parte del mondo. Questa ricchezza mostra in modo ancora più splendido la cattolicità dell’unica Chiesa»,

richiamando nell’ultima frase il documento dal titolo Natura, costituzione e missione della Chiesa, elaborato dalla Commissione nel 2009.

Ma questo incontro è stato solo il primo di numerosi altri che papa Francesco ha vissuto nel corso degli ultimi due anni con Pastori e rappresentanti delle Chiese Ortodosse Orientali. Sempre nel discorso summenzionato, infatti, il Pontefice ha ricordato gli incontri vissuti nel 2023 con Sua Santità Tawadros II, Patriarca di Alessandria e Capo della Chiesa copta (11 maggio 2023. Cf: collegamento), con Sua Santità Baselios Marthoma Mathews III, Catholicos della Chiesa ortodossa sira malankarese (11 settembre 2023. Cf: collegamento) e con Sua Santità Mor Ignatius Aphrem II, Patriarca Siro-Ortodosso di Antiochia e di tutto l’Oriente (30 settembre 2023. Cf: collegamento). Nel 2024 sono poi seguiti gli incontri con il Santo Sinodo della Chiesa Siro-Malankarese Mar Thoma (11 novembre 2024. Cf: collegamento) e con Sua Santità Mar Awa III, Catholicos Patriarca della Chiesa Assira dell’Oriente (9 novembre 2024. Cf: collegamento). Ma non dobbiamo nemmeno dimenticare gli incontri avvenuti con Pastori e fedeli della Chiesa Siro-Malabarese (13 maggio 2024. Cf: collegamento) e con il Sinodo della Chiesa Patriarcale Armena di Cilicia (28 febbraio 2024. Cf: collegamento), due Chiese in comunione con la Sede Apostolica di Roma, ma che condividono la tradizione liturgica e spirituale delle Chiese Orientali da cui originano.

Certamente queste visite non suscitano normalmente l’interesse dei media e l’attenzione dei fedeli come accade nel caso dei rapporti e degli incontri di papa Francesco con il Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli (che sono ormai divenuti una tradizione consolidata) e con il Patriarcato di Mosca (soprattutto attraverso le visite a Roma del Metropolita incaricato delle relazioni esterne della Chiesa Ortodossa Russa); anzi, probabilmente molti dei nomi stessi delle Chiese che abbiamo or ora menzionato sono largamente sconosciuti ai più, così come non a tutti è nota l’esistenza anche in questo ambito di Chiese con le quali ancora non vi è piena unità di fede e sacramentale, e di altre che invece fanno parte delle Chiese Orientali Cattoliche, in piena comunione con la Sede di Pietro. Eppure, non poche di queste Chiese hanno ormai una presenza consolidata nel nostro Paese, oppure vengono alla ribalta della cronaca poiché hanno come luoghi di origine o di maggior insediamento regioni tragicamente segnate da guerre e persecuzioni.

Da questa constatazione nasce la scelta di dedicare il webdoc proposto dall’UNEDI per il 2024/25 alla promozione di una conoscenza almeno iniziale delle Chiese Orientali, Ortodosse e Cattoliche, che non afferiscono alla tradizione bizantino-slava. Iniziamo con alcune Chiese e Tradizioni, senza alcuna pretesa di esaustività, avviando un percorso che sarà arricchito anche nei prossimi anni.

L’incontro del 26 gennaio 2024 tra papa Francesco e i membri della Commissione mista per il Dialogo tra la Chiesa Cattolica e le Chiese Ortodosse Orientali
Collocazione geografica dei territori di origine delle principali Chiese Ortodosse Orientali, rielaborazione da: https://italiastoria.com/wp-content/uploads/2020/07/73318999_568252084003087_2150527714660974592_n.jpg

Scheda 1

La Chiesa copta ortodossa d’Egitto

Cattedrale Patriarcale Copta di san Marco – Il Cairo. Foto di F. Braschi

Tre contesti individuano l’identità della Chiesa copta egiziana.

1. Contesto culturale: il suo substrato è quello dell’Egitto tardo-antico, estremamente ellenizzato, con evidenti ricadute in tutti gli aspetti della vita ecclesiale, dall’esegesi biblica (di tipo allegorico, testimoniata dal magistero di Didimo il Cieco, Clemente Alessandrino e Origene, in linea con l’esegesi applicata ai testi classici dai grammatici alessandrini) alla liturgia (che presenta tuttora molte parti in greco, oltre che in arabo).

2. Contesto teologico: la sua cristologia è fondata sull’affermazione dell’unità assoluta delle due nature, umana e divina, assunte dal Verbo incarnato, nell’unica persona, detta anche ipostasi, del Cristo. La cristologia di questa Chiesa – che per questo è detta miafisìta – si può definire per eccellenza “dell’unità” pienamente conforme, del resto, a quella dei concili della Chiesa quando era indivisa, espressa però in un linguaggio estraneo a quello di altre Chiese dell’oriente cristiano, come quella antiochena.

3. Contesto ecclesiale: questa Chiesa si separò dagli altri quattro patriarcati quando questi nel concilio di Calcedonia (451) hanno espresso la fede cristologica con una terminologia difforme da quella egiziana e condannarono il patriarca di Alessandria Dioscoro, che voleva imporre alla Chiesa universale la terminologia alessandrina. Nel VI secolo il patriarcato di Alessandria si divise in due: una parte, minoritaria, che rimane fedele a Calcedonia, e la maggioranza, con un proprio patriarca, che assumerà sempre più caratteristiche locali (nella lingua liturgica, nell’alfabeto e in altri aspetti) divenendo appunto la Chiesa copta, cioè egiziana.

Questa Chiesa presenta tre caratteri identitari:

1.Il primo è l’apostolicità delle sue origini, fatte risalire – con una tradizione non suffragata dal testo biblico – alla predicazione dell’apostolo Marco discepolo di Pietro. Il patriarca porta il titolo di papa.

2.Il secondo è l’eccellente vitalità in essa della vita monastica. Il monachesimo è nato in Egitto, tra la fine del III e l’inizio del IV secolo, in tutte le sue forme (cenobitica ed eremitica a vari livelli) che colonizzarono il deserto a sinistra del Nilo (Nitria, Celle e Sceti) e a destra (verso il Mar Rosso).

3.Il terzo è la grande venerazione per i santi e soprattutto per le loro reliquie: i suoi grandi santi sono vescovi-teologi, come Atanasio e Cirillo, e monaci, come Antonio e Pacomio. Sono meno venerate le icone, che pure i Copti conoscono e usano.

Immagine dei Martiri uccisi sulla spiaggia della Libia il 15 febbraio 2015. Foto di F. Braschi

Con la conquista islamica del VII secolo i Copti furono all’inizio favoriti rispetto ai cristiani fedeli a Calcedonia (i cosiddetti melkiti), ma in seguito la pressione islamica si fece a tratti insostenibile, determinando una notevole contrazione di fedeli, e ancora oggi è molto forte. Secondo una stima non verificabile i Copti in Egitto ammonterebbero a circa tre milioni di fedeli, l’otto per cento della popolazione. Questo è quanto risulta dalle statistiche ufficiali ma, stime ricorrenti tra la popolazione copta, valutano la propria consistenza tra il 10 e il 20% della popolazione egiziana che supera i 110 milioni (stima 2023 della Banca Mondiale).

C’è una forte diaspora copta in occidente: in Italia esistono due diocesi, rispettivamente a Milano e a Roma. Per quanto riguarda i rapporti con la Chiesa cattolica, il 12 febbraio 1988 i due defunti papi, Shenouda III e Giovanni Paolo II, firmarono un documento ufficiale – approvato poi dal Sinodo copto – nel quale la fede cristologica comune è espressa in termini sostanzialmente identici a quelli del concilio di Calcedonia. La Chiesa Copta egiziana ha inoltre sottoscritto, insieme alle altre Chiese antico-orientali, tre documenti frutto del dialogo teologico con la Chiesa cattolica (2009, 2015, 2022), ma il 7 marzo 2024 ha sospeso tale dialogo per dissenso nei confronti della dichiarazione cattolica Fiducia supplicans.

Bibliografia:

  • Testo di riferimento: CH. CANNUYER, I Copti, Schio (Vicenza), Interlogos/Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1994

Scheda 2

La Chiesa Apostolica Armena

La Cattedrale della Chiesa Madre di Etchmiadzin, prima sede della Chiesa Armena https://www.armenianchurch.org/images/cache/news/1/17262240697351/b342f690c0e7347c0edf4da3c422ff79-1045x662.jpg

Tra le antiche chiese orientali, la Chiesa Apostolica Armena (chiamata a volte anche Gregoriana) si distingue per alcune caratteristiche specifiche, in parte legate alla storia del popolo armeno. La storia degli Armeni non si può comprendere se non a partire dalla loro fede; dal momento del primo annuncio cristiano, che la tradizione attribuisce agli apostoli Bartolomeo e Taddeo, le vicende del popolo armeno sono costante testimonianza di fedeltà a Cristo, anche a prezzo della vita (basti pensare alle tristi sorti del popolo armeno in seguito al genocidio all’inizio del sec. XX). La completa evangelizzazione del popolo armeno si deve all’opera di san Gregorio l’Illuminatore, proveniente da Cesarea di Cappadocia. Tra la fine del sec. III e l’inizio del IV si assiste alla conversione del re Trdat (la data del battesimo del re è indicata al 301/302) e alla progressiva e rapida cristianizzazione di tutta la nazione armena, tanto che questo popolo orgogliosamente si considera la prima nazione al mondo ad accogliere il cristianesimo facendone la religione ufficiale dello stato.

Nonostante gli influssi delle chiese del Ponto e della Cappadocia e delle chiese di tradizione siriaca, la chiesa armena ha elaborato una struttura ecclesiastica indipendente attorno alla figura di un katholikos (patriarca) con sede a Echmiadzin (a partire dal V sec.). Tuttavia, la mancata partecipazione dei vescovi armeni al Concilio di Caledonia del 451 e la non comprensione del linguaggio teologico dei testi conciliari, hanno portato progressivamente la chiesa armena a rifiutare le formulazioni cristologiche sancite da Calcedonia giungendo ad una condanna formale del concilio nel corso del VI secolo e orientando la chiesa armena verso una cristologia di tendenza monofisita. Questa, tuttavia, rimane solo verbale in quanto la cristologia della chiesa armena è compatibile con la tradizione espressa da Calcedonia, come lo dimostrano la dichiarazione comune firmata da Giovanni Paolo II e dal katholikos Kareklin I nel 1996.

L’invenzione dell’alfabeto armeno all’inizio del sec. V (ad opera del monaco Mesrop Maštoc) segna una svolta radicale nell’elaborare una spiritualità e una liturgia proprie. Accanto all’ingente opera di traduzione delle fonti bibliche e patristiche, si forma una ricca letteratura di carattere religioso e profano, manifestando una particolare sensibilità al linguaggio poetico (basti ricordare l’opera poetica di Gregorio di Narek, riconosciuto da papa Francesco “Dottore della Chiesa”). E così avvenne anche per la liturgia. Vari elementi di diverse liturgie già esistenti (dalla tradizione cappadoce e siriaca) furono armonicamente fusi insieme creando una liturgia originale profondamente legata alla sensibilità del popolo armeno. In particolare, nella liturgia eucaristica trovarono largo spazio elementi della liturgia bizantina e, in seguito ai frequenti scambi con i Crociati durante il regno di Cilicia, anche preghiere tratte dalla liturgia romana.

Questa vocazione “ecumenica” della chiesa armena trovò anche una espressione ecclesiale, soprattutto con una disponibilità al dialogo con la chiesa di Costantinopoli a opera del Nerses di Lambron, vescovo di Tarso (il suo Discorso Sinodale è un capolavoro di spirito autenticamente ecumenico). Anche i contatti con Roma rimasero costanti, pur con battute di arresto e alterne vicende. La tradizione liturgica ed ecclesiale armena mostra dunque una straordinaria apertura ecumenica nell’accogliere elementi da fonti diversificate, ma anche una notevole capacità sintetica nel rifonderle secondo il proprio genio originale segnato soprattutto dalla fedeltà a Cristo fino al martirio (il mistero della Croce come fonte di vita traspare in tutta la spiritualità armena).

La Cattedrale della Santa Sede di Cilicia ad Antelias, Libano

Se il centro simbolico della chiesa armena rimane Echmiadzin, attualmente, per complesse vicende storiche, la chiesa apostolica armena è strutturata in due katholikosati (Echmiadzin e Cilicia, con sede ad Antelias in Libano) e due patriarcati (Costantinopoli e Gerusalemme). Di questa struttura ecclesiastica fanno parte tutti gli armeni sparsi per il mondo. Anche in Italia, fin dal VI secolo ci sono state significative presenze armene, di cui varie chiese sono ancora oggi testimonianza. Attualmente vi sono piccole comunità armene in varie città italiane, di cui quella di Milano è la più significativa. Non va infine dimenticata la presenza, a Venezia nell’isola di san Lazzaro, di una importante e viva testimonianza armena: quella dei monaci mechitaristi. Pur appartenendo alla chiesa armena unita a Roma (creatasi nel sec. XVIII), questi monaci (fondati da Mechitar di Sebaste nel sec. XVIII con autentico spirito ecumenico), grazie alla loro vasta attività culturale, hanno salvato il patrimonio della chiesa armena e da tutta la chiesa armena sono riconosciuti come custodi di questa ricca tradizione.

Scheda 3

La Chiesa Maronita

Quella maronita è l’unica Chiesa orientale che, nella sua totalità, è da sempre unita a Roma. Si tratta di una ramificazione del patriarcato di Antiochia: per questo il suo primate – che dalla seconda metà del secolo scorso sino a oggi è sempre stato creato cardinale – riceve il titolo di patriarca di Antiochia e, al momento della sua elezione, premette al suo nome anche quello di Pietro, l’apostolo ritenuto fondatore della Chiesa di Antiochia.

Le radici di questa Chiesa sono esclusivamente monastiche: esse vanno cercate in un monastero della Siria, fondato da un asceta, Marone († 410), che fu interlocutore di san Giovanni Crisostomo e le cui straordinarie virtù ascetiche sono raccontate da Teodoreto di Ciro. Questo monastero, nel corso del V secolo, fu a capo di una confederazione di monasteri che si dichiarò a favore della cristologia ortodossa definita a Calcedonia – unica eccezione nel monachesimo siriaco del tempo, che invece rifiutò tale concilio, adottando la terminologia teologica alessandrina, detta miafisìta – e per questo subì dure persecuzioni. Secondo una certa tesi – contestata però dagli storici maroniti – questa Chiesa sarebbe rimasta isolata nei confronti degli altri siro-antiocheni, sia quelli fedeli a Calcedonia sia quelli miafisiti, in quanto, per un certo periodo, si sarebbe adeguata al monotelismo, quel compromesso teologico – che professava in Cristo un’unica volontà – imposto nel VII secolo dall’imperatore Eraclio nel tentativo di conciliare miafisiti e calcedoniani.

Poiché praticamente, dal 609 al 702, la Chiesa antiochena fedele a Calcedonia non ebbe un patriarca residente in sede, verso la fine del VII secolo (forse nel 685-686) un superiore del monastero – un tale Giovanni, che prese anche il nome emblematico di Marone – assunse il titolo, per sé e per i suoi successori, di patriarca di Antiochia. Poiché a causa delle persecuzioni molte comunità di cristiani legati al monastero si erano trasferiti tra le montagne del Libano, anche il patriarca, all’inizio del X secolo (forse nel 939) si trasferì nel Libano.

Nel loro splendido isolamento furono trovati dai Crociati, già nel corso della prima spedizione (1100), e si riscontrò che la loro fede era identica a quella di Roma. Per questo nel 1131 il loro patriarca Gregorio emise un giuramento di fedeltà al papa di Roma e nel 1215 il patriarca Geremia partecipò al IV concilio lateranense e ricevette il pallio da papa Innocenzo III. L’unione con Roma comportò pesanti latinizzazioni nella liturgia e nelle devozioni, che sono state in parte eliminate con una riforma promossa nel 1992.

Due momenti fondamentali nella storia della Chiesa maronita furono nel 1584 la fondazione a Roma, per iniziativa di papa Gregorio XIII, del Collegio Maronita, che promosse la rinascita culturale e religiosa di quella Chiesa e dal quale uscì una schiera di eminenti studiosi, trasmettitori della cultura araba cristiana all’occidente latino, e nel 1736 il Sinodo di Monte Libano, che curò una riforma di quella Chiesa e suddivise il patriarcato in otto diocesi (prima i vescovi erano tutti ausiliari del patriarca, che sino ad allora era l’unico vescovo residenziale).

In continuità con la grande tradizione monastica siriaca, la Chiesa maronita ha sempre fruito di un’abbondante fioritura di vita monacale, che nel XVIII secolo – secondo il modello occidentale – fu conglobata in ordini religiosi, come l’Ordine Libanese Maronita e l’Ordine Antoniano Maronita. Da essi sono uscite figure di santi monaci, testimoni di una stupefacente continuità con le pratiche ascetiche di ambito siriaco descritte da Teodoreto di Ciro, quali Ni’mtallah Al-Hardini (1808-1858) canonizzato nel 2004, Charbel Makhlouf (1828-1898) canonizzato nel 1977, Rafqa Er-Rayess (1932-1914) canonizzata nel 2001, e il beato Esţfān Nehmé (1889-1938).

Bibliografia:

  • Testo di riferimento: B. SORGE, I Maroniti nella storia. Lineamenti e ricerche, Roma, Le Muse, 1977 (Quaderni Universitari, 2)

Scheda 4

La Chiesa Copta Etiopica

La “scoperta” dell’Etiopia in Occidente

Fino a dopo l’anno 1000 non si aveva in Occidente un concetto chiaro della localizzazione dell’Etiopia: vi era piuttosto un’idea confusa di quello che veniva chiamato “Regno del Prete Ianni”, denominazione che si può vedere su antiche mappe. Questa ignoranza durò fino al secolo XV, quando abbiamo notizia di pellegrini abissini giunti a Roma durante il pontificato di Sisto IV (1461-1484), che nel 1479 destinò loro la chiesa e il monastero di S. Stefano, detto per questo “dei Mori” o “degli Abissini”. Nel 1512, in occasione del Concilio Lateranense V, è documentata a Roma la presenza di Etiopici e Siro-caldei, la cui liturgia viene esaminata da parte di un canonico del Laterano. È così che – a partire dall’aiuto offerto dai pellegrini abissini – si inizia uno studio della lingua che porta, nel 1513, alla prima stampa in etiopico: un Salterio con aggiunta di inni. Giovanni Potken, che è lo stampatore, ritorna poi a Colonia, sua patria e ristampa il salterio, diffondendo l’interesse per l’etiopico.

Nel frattempo, l’Etiopia è dilaniata dalle guerre tra musulmani e cristiani: per questo i profughi che scappano a Roma permettono lo studio dell’Etiopico. Abbiamo il ricordo di tre monaci provenienti da Dabra Libanos, famoso monastero etiopico, che favoriranno la conoscenza e la stampa di libri in etiopico, grazie anche all’opera di “Pietro Indiano”, nato a Roma, che nel 1548 pubblicò i Vangeli e le lettere paoline. Del 1552 è la prima grammatica etiopica, e intorno a quest’epoca abbiamo anche i primi rapporti politici “ufficiali”: un ambasciatore etiopico a Roma e un’ambasceria portoghese che per sei anni rimane in Etiopia. Anche S. Ignazio di Loyola prepara missionari per l’Etiopia, ma solo nel secolo XVII alcuni gesuiti riusciranno a entrare in quel paese, studiandone a fondo l’ambiente e la storia.

Chiesa di Lalibelà. Foto di F. Braschi

L’introduzione del Cristianesimo nel regno di Axum

L’Etiopia, per la sua posizione geografica, ha sempre avuto rapporti commerciali con lo Yemen, il mitico paese della regina di Saba. Nel I secolo d.C. troviamo nel nord il regno di Axum, una monarchia indipendente che ha tra i suoi miti di fondazione quello della discendenza della propria casa reale dalla regina di Saba e da Salomone tramite il loro figlio, Menelik, al quale Salomone avrebbe conferito l’unzione regale e affidato l’Arca dell’Alleanza e le tavole della legge (cf 1Re 10,1-13). Lo scarno racconto biblico viene ampliato, nella tradizione etiopica, nell’opera “Kebra nagast” (Gloria dei Re), una cronaca dei re d’Etiopia destinata a legittimare il potere della dinastia “salomonica” installatasi sul trono a partire dal XIII secolo. Secondo questo racconto, la regina di Saba sarebbe stata sovrana dell’Etiopia, e avrebbe concepito un figlio da Salomone, Menelik (dall’ebraico ben melek o dall’arabo ibn malik – figlio di re). Giunto all’adolescenza, Menelik volle conoscere suo padre e partì per Gerusalemme con la benedizione della regina madre, mostrando una tale somiglianza con il padre, che il popolo di Israele stentava a distinguerli. Salomone avrebbe voluto il figlio Menelik come successore, ma il giovane gli spiegò che il suo posto era in Etiopia. Salomone allora acconsentì a lasciarlo partire, insieme ai primogeniti di Israele e, con l’aiuto di giovani sacerdoti, Menelik e compagni riuscirono a rubare l’Arca dell’Alleanza, portandola in Etiopia. Essa sarebbe collocata – come vuole una tradizione ancora oggi molto viva – nella Cattedrale di Sion ad Axum. Sempre secondo il Kebra Nagast, gli Etiopi si sarebbero convertiti all’Ebraismo, preparandosi così a riconoscere il Messia e a unirsi ai suoi discepoli. L’evangelizzazione sarebbe seguita al battesimo dell’eunuco etiope, funzionario della regina Candace, di cui parla At 8,26-39.

Cosa rimane di queste antiche tradizioni, di cui tuttavia è difficile provare la storicità? Certamente il fatto che, nonostante dal punto di vista etnografico gli Etiopi appartengano al gruppo cuscitico, l’Etiopia ha subito moltissime influenze semitiche, fino ad avere una lingua (di ceppo “camito-semitico”) imparentata con arabo, ebraico e aramaico. In Etiopia esisteva inoltre una antichissima comunità giudaizzante di origini misteriose, i Falasha, che si attribuiscono il nome di Bēta 'Isrā'ēl (Casa d’Israele), e che furono in gran parte trasportati in Israele dal 1980 al 1991, dove oggi risiedono. Numerosi autori hanno poi sottolineato il significativo permanere di usi veterotestamentari (circoncisione, osservanza del sabato, presenza di un manufatto denominato “Arca dell’Alleanza” nelle chiese) nel cristianesimo etiopico.

Axum era una città fiorente di commerci e ben conosciuta nel Medio Oriente, nella quale nel III-IV secolo è documentata la presenza di Ebrei e di Cristiani, per lo più mercanti, che costituivano una esigua minoranza. Rufino di Aquileia (345-410 ca.), continuatore della Storia della Chiesa di Eusebio di Cesarea, racconta che un tale Merobio, filosofo, voleva entrare in India per esplorarne i luoghi. Costui partì da Tiro portando con sé due giovanetti di cui era pedagogo: Edesio e Frumenzio. Mentre erano sulla via del ritorno, la nave su cui viaggiavano fece naufragio sulle coste etiopiche; i giovani vennero catturati dal re di Axum, che dopo alcune vicissitudini – probabilmente anche grazie alla cultura di cui i due fratelli diedero mostra - fece di Edesio il suo coppiere e a Frumenzio affidò il tesoro. Alla morte del re la regina divenne reggente per conto del figlio ancora bambino, e volle Frumenzio come suo primo ministro. Egli iniziò allora a ricercare con più cura se tra i mercanti vi fossero dei cristiani, e per loro ottenne la possibilità di riunirsi a pregare e avere un luogo di culto. Quando il principe crebbe, i due ottennero di lasciare il paese. Mentre Edesio si affrettò a rientrare a Tiro, Frumenzio si recò ad Alessandria, ritenendo che non andasse nascosta l’esistenza di una comunità cristiana ad Axum. Incontrò dunque Atanasio, vescovo di Alessandria, e gli chiese un vescovo per la comunità cristiana di Axum, venendo tuttavia egli stesso consacrato e rimandato in Etiopia come pastore. Lì convertì molti pagani e fece dell’Etiopia un popolo cristiano. Rufino afferma di aver appreso queste notizie da Edesio stesso, divenuto poi presbitero a Tiro, e denomina il paese di cui narra le vicende “India Ulterior”.

Altri documenti permettono di meglio comprendere la narrazione di Rufino: nel 356, infatti, l’imperatore filoariano Costanzo – figlio di Costantino – scrisse a Ezanà, re di Axum (325-356) e al di lui fratello Sazana, invitandoli a rimandare Frumenzio ad Alessandria perché si sottomettesse al patriarca Giorgio, da lui posto sul trono episcopale al posto di Atanasio, esiliato perché niceno. Nel medesimo periodo, sulle monete d’oro del regno axumita compaiono simboli cristiani, e nelle iscrizioni l’espressione “Dio del Cielo”, tipicamente cristiana. Possiamo dunque collocare la conversione del re Ezana nella prima metà del IV secolo. Dal punto di vista canonico, questa testimonianza mostra l’origine di una storia millenaria di dipendenza dalla Chiesa alessandrina della Chiesa etiope.

Celle monastiche a Lalibelà. Foto di F. Braschi

Dal V secolo in poi

Nel V secolo le testimonianze sul cristianesimo etiope si moltiplicano: Gerolamo, che morì nel 420 a Betlemme, testimonia che “torme di monaci etiopi” si recavano in pellegrinaggio a Gerusalemme per visitarne i luoghi santi, e quindi ci riferisce indirettamente la diffusione del cristianesimo, in modo tale che all’inizio del VI secolo possiamo parlare di uno stato cristiano.

Nel V-VI secolo si ha notizia di un gruppo di monaci provenienti dalla Siria, che avrebbero operato la cristianizzazione dell’Etiopia interna, venendo poi martirizzati. In questa epoca si colloca la fondazione di monasteri e la traduzione in ge’ez (l’antico etiopico, lingua liturgica di questa Chiesa) della Bibbia, che nella redazione etiopica comprende anche alcuni apocrifi. La presenza di numerose parole di origine siriaca nella lingua ge’ez, relativamente ai termini di carattere religioso, ci testimonia ulteriormente l’importanza dei missionari siriani per la chiesa etiopica. Su questi “nove santi” provenienti da Siria, Roma, Asia e Costantinopoli (secondo la leggenda) si sono sviluppati molti racconti agiografici. Essi sarebbero stati dapprima in contatto con San Pacomio, nell’alto Egitto, e da lì sarebbero arrivati ad Axum per imparare l’etiopico e disperdersi poi nel paese. In ogni caso, è in questo periodo che si colloca la nascita del monachesimo etiopico.

I secoli VII-XII vedono una decadenza civile e religiosa dovuta anche all’accerchiamento che l’Etiopia vive, a motivo dell’espansione musulmana. Axum perde i suoi possedimenti in Arabia e l’invasione persiana mette definitivamente fine alla presenza etiopica in Arabia. Il crescente potere degli stati musulmani portò allo sgretolamento del regno di Axum: resistette un piccolo regno cristiano nella regione del Lasta, ove troviamo testimonianze artistiche insigni quali le chiese monolitiche di Lalibelà (costruite dal 1190 al 1225 circa dalla dinastia Zagwe). Questa epoca fu assai felice per la devozione religiosa, come mostra la “replica” di Gerusalemme costruita a Lalibelà per venire incontro a quanti non potevano recarsi a Gerusalemme.

Nei secoli XIII-XV il cambiamento dinastico che vede i salomonidi (dinastia regnante dal 1270 al 1974) succedere agli Zagwe, ormai dilaniati da violenti conflitti intestini, porta con sé anche una nuova fioritura per la Chiesa etiopica, pur se funestata da una serie di eresie trinitarie o cristologiche che hanno origine soprattutto negli ambienti monastici, alle quali si opporranno i re etiopici. In questo periodo troviamo la figura di san Tekle Haymanot (ca. 1215-1313), uno dei più grandi santi monaci etiopici, che favorirà una grande diffusione del monachesimo, attirando anche molti giovani aristocratici. Ma i secoli XIV e XV videro anche una serie di divisioni interne alla chiesa, con uno scisma che fu sanato nel XV secolo dal re Zara Yaqob (1399-1468), il quale mandò delegati etiopici al Concilio di Ferrara-Firenze (1438-1441).

Il XVI secolo vede una impegnativa lotta di resistenza contro l’invasione musulmana, nel corso della quale vengono chiamati in soccorso i portoghesi. Con loro arrivano i Gesuiti, e la possibilità di una riunione con la Chiesa cattolica sembrerà in alcuni momenti vicina, anche se vivrà alterne vicende.

Dopo aver seguito tutte le vicende legate alla colonizzazione dell’Africa e alla lotta per l’indipendenza dell’Impero etiopico, nel 1948 la Chiesa etiopica è divenuta autocefala, rendendosi indipendente dalla Chiesa di Alessandria, che fino ad allora ne aveva designati i patriarchi. Il primo patriarca etiope autoctono fu Abuna Basilios, consacrato nel 1959 da Kirillos VI, papa copto di Alessandria.

Monaco etiope con il tradizionale ombrello liturgico. Foto di F. Braschi

Caratteristiche salienti

Tra i caratteri specifici della Chiesa Etiopica possiamo annoverare questi tratti:

  • è la prima Chiesa autoctona dell’Africa nera;
  • è una Chiesa che elabora una propria cultura religiosa cristiana, contemplando – ad esempio – l’utilizzo liturgico della danza e dei sistri, nonché la celebrazione festiva anche del sabato, oltre che della domenica;
  • fa un largo utilizzo degli apocrifi veterotestamentari, arrivando a diventare uno dei principali canali di tradizione per alcuni testi: il libro di Enoch, il libro dei Giubilei, l’Ascensione di Isaia;
  • oltre alla celebrazione festiva del sabato, altri elementi di ascendenza giudaica sono presenti nella spiritualità etiope, tra cui l’uso di custodire un simulacro dell’Arca dell’Alleanza nelle Chiese e la pratica della circoncisione maschile;
  • il monachesimo etiope, infine, arriva a sviluppare caratteristiche singolari e distintive relativamente – ad esempio – alle forme di ascesi e ai modelli agiografici.
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