buddhismo Conoscenza - Elementi di etica buddhista

Sebbene chi si accosti al buddhismo si meravigli della gran varietà di tradizioni e scuole che lo compongono, a livello di insegnamenti morali si può forse individuare un nucleo comune composto da vari principi e precetti, oltre che dai valori e dalle virtù esposte dal Buddha nel V secolo a.C., che continuano a guidare la condotta di circa 350 milioni di buddhisti in tutto il mondo. Di seguito si illustrerà brevemente alcuni insegnamenti morali di base (il Dharma, il karma, il merito, il vinaya, i precetti, le virtù, ahimsā, l’etica Mahāyāna).

Il Dharma

La moralità è la prima delle tre suddivisioni dell’Ottuplice sentiero e il fondamento della vita reli-giosa. La sviluppo della moralità è una condizione necessaria per poter coltivare la meditazione e la saggezza. Vivere una vita improntata alla moralità significa vivere secondo il Dharma, una leg-ge universale che governa sia l’ordine fisico (il sorgere del sole, il succedersi delle stagioni…) sia l’ordine morale dell’universo. Vivere secondo il Dharma, mettere in pratica ciò che richiede, por-ta alla felicità e alla liberazione; trascurarlo e trasgredirlo significa rimanere all’interno dell’infinita sofferenza del ciclo delle rinascite.

Nel suo primo sermone, il Buddha enunciò gli insegnamenti essenziali della sua dottrina secondo la nota formula delle Quattro nobili verità, l’ultima delle quali tratta della “verità del sentiero” o “della via”, cioè dell’Ottuplice sentiero. Questa chiarisce il modo in cui avviene il passaggio dal samsāra (“vagare senza fine”, ovvero la sequenza ciclica di rinascite) al nirvāna (“estinguersi”, ovvero lo spegnimento del “triplice fuoco” dell’attaccamento, dell’odio e dell’ignoranza che con-duce alla rinascita). Esso è costituito da otto fattori: 1) retta comprensione; 2) retta decisione; 3) retto parlare; 4) retto agire; 5) retto modo di sostentarsi; 6) retto sforzo; 7) retta concentrazione; 8) retta meditazione e sono raggruppati nelle già citate tre categorie della saggezza (1-2), della moralità (3-5) e della meditazione (6-8).

Come ordine morale, il Dharma si manifesta nella legge del karma, che governa il modo in cui gli atti morali influiscono sugli individui durante questa vita e quelle future. Il significato letterale del termine karma è “azione”, e in campo religioso esso si riferisce alle “azioni morali”. Buddha stesso definì il karma con le seguenti parole: “Monaci, ciò che io chiamo karma è la scelta. Avendo scelto, ciascuno agisce con il corpo, la voce o la mente”. Tuttavia, la dottrina del karma non sostiene affatto che tutto ciò che accade a un individuo è determinato dal karma. Secondo il buddhismo gli esseri umani sono dotati di libero arbitrio e, nell’esercitarlo, si autodeterminano: essi sono infatti liberi di resistere ai condizionamenti del passato e di adottare nuovi modelli di comportamento (di fatto, questo è lo scopo del buddhismo). Così, attraverso le proprie scelte morali, gli individui creano se stessi.

Gli effetti remoti delle scelte karmiche vengono definiti come “maturazione”, o “frutto”, e a questo proposito si usa una metafora legata all’agricoltura: compiere azioni positive e negative è come piantare dei semi che in seguito porteranno frutti.

Che cosa rende un’azione positiva o negativa? Secondo la definizione di Buddha appena citata, sembra si tratti soprattutto di una questione di intenzione e di scelta. Le motivazioni psicologiche sono descritte nel buddhismo come “radici”, e vi sarebbero tre radici buone e tre radici cattive. Le azioni compiute sulla spinta dell’attaccamento, dell’odio, e dell’ignoranza (rappresentate nell’iconografia buddhista come un maiale, un serpente e un gallo che si inseguono in circolo afferrandosi la coda) sono negative o non salutari, mentre le azioni compiute sulla spinta dei loro opposti, non attaccamento, benevolenza e comprensione, sono positive o salutari.

Il merito

Il karma può essere sia positivo sia negativo. I buddhisti chiamano il karma positivo “merito” e per acquisirlo occorre grande dedizione. Per un laico uno dei modi migliori di accumulare meriti è aiutare l’ordine dei monaci, offrendo cibo nelle loro ciotole quando passano per la questua, provvedendo ai loro abiti, ascoltando i sermoni, presenziando alle funzioni religiose, e facendo donazioni per il mantenimento di monasteri. I buddhisti appartenenti ad alcune culture e scuole (come quella Mahāyāna) credono anche nella possibilità del “trasferimento dei meriti”, ovvero che il karma positivo possa essere messo a disposizione di altri. E la motivazione per dividere con gli altri i propri meriti, se fatta con disinteresse, è sicuramente buona sul piano karmico, dal momento che porta alla formazione di un carattere generoso e benevolo.

La regola monastica

La vita di un monaco o di una monaca buddhista è governata dalla regola monastica (Vinaya), che fa parte del Canone pāli (il più antico dei canoni del buddhismo) ed è un compendio di informazioni riguardanti tutti gli aspetti dell’ordine monastico. Oltre agli elaborati particolari della vita quotidiana, la regola monastica contiene i principali precetti morali (come quelli che vietano di uccidere e di rubare). Queste norme monastiche possono essere considerate una combinazione di precetti morali e di esercizi diretti a sviluppare la moderazione e l’autodisciplina. Il loro grande numero garantisce l’uniformità all’interno delle comunità monastiche, riducendo al minimo discussioni e disaccordi e presentando l’ordine dei monaci agli occhi del mondo come un microcosmo morale. Della regola monastica fa parte il codice noto come Pātimokkha, che contiene istruzioni particolareggiate su come i monaci sono tenuti a vivere in comunità, e al cui interno troviamo i quattro Pārājika, ovvero le quattro regole (relazioni sessuali, furto, omicidio, pretesa di aver ottenuto risultati spirituali profondi) che, se violate dal monaco, portano alla sua immediata espulsione dal Sangha (comunità buddhista) dove non potrà più essere riammesso per il resto della sua vita.

I precetti

Il buddhismo esprime le sue regole etiche sotto forma di doveri. I doveri morali più comuni si articolano nei cinque precetti che si applicano indistintamente a tutti i buddhisti. Essi sono: astenersi

  • 1) dall’uccidere;
  • 2) dal rubare;
  • 3) dal compiere atti sessuali immorali;
  • 4) dal mentire;
  • 5) dall’assumere sostanze stupefacenti.

Oltre a questa serie di precetti, esistono altre liste più o meno estese di direttive morali. Vi sono, ad esempio, gli otto precetti per i devoti, cioè per i laici che vivono in pagoda o in casa, con l’abito bianco, dedicandosi alla meditazione e ad acquisire meriti, e che essi devono seguire almeno nei giorni di osservanza, cioè i giorni di luna piena, luna nuova e i quarti di luna intermedi. Oltre ai primi cinque precetti – già citati – i devoti devono astenersi

  • 6) dal mangiare nel pomeriggio;
  • 7) dai divertimenti, ornamenti, profumi;
  • 8) dal dormire sul suolo.

Oppure ancora la lista dei dieci precetti per novizi: oltre ai primi cinque precetti, essi devono astenersi dal

  • 6) mangiare pomeridiano;
  • 7) dalle danze e dai divertimenti;
  • 8) da ornamenti e profumi;
  • 9) da alti seggi e onori;
  • 10) dall’uso del denaro.

Le virtù

Scopo delle virtù è quello di contrapporsi a tendenze negative come l’orgoglio e l’egoismo. Il nucleo essenziale delle lunghe liste di virtù e vizi che appaiono nei testi della letteratura buddhista è formato dalle tre virtù del non attaccamento (l’assenza del desiderio egoistico che altera il comportamento morale concentrandosi solo sui propri bisogni), della benevolenza (un atteggiamento di attiva partecipazione alle necessità di tutti gli esseri viventi) e della comprensione (la conoscenza della natura umana e del bene dell’uomo, così come sono esposti in dottrine quali le Quattro nobili verità). Tali virtù sono l’opposto delle tre “radici negative” menzionate in precedenza, cioè l’attaccamento, l’odio e l’ignoranza. A queste tre virtù buddhiste fondamentali se ne aggiungono molte altre come la generosità, la pazienza, l’umiltà, l’equanimità, eccetera. Una delle virtù più importanti è quella della compassione che è riconosciuta da tutte le scuole buddhiste, anche se è particolarmente presente nella tradizione Mahāyāna.

L’inviolabilità della vita

Elemento fondamentale dell’etica buddhista è la convinzione dell’inviolabilità della vita. Il termine ahimsā significa letteralmente “non fare del male”, o “nonviolenza”, ed è praticata sulla base di un sentimento profondamente positivo di rispetto per gli esseri viventi, una posizione morale che in Occidente è associata al concetto di “rispetto per la vita” o di “santità della vita” (nel senso che è sempre moralmente sbagliato causare intenzionalmente un male o un danno a delle creature viventi). Grazie alla sua associazione con il concetto di ahimsā il buddhismo è generalmente percepito come un movimento nonviolento e pacifico. Tuttavia, mentre rimane vero che i paesi buddhisti non sono stati esenti dall’essere teatro di guerre o conflitti, gli insegnamenti buddhisti lodano costantemente la nonviolenza ed esprimono disapprovazione per l’uccisione o il recare sofferenza ad altri esseri viventi.

Etica Mahāyāna

Mahāyāna significa “grande veicolo” perché si autodefinisce una “via universale alla liberazione (dalla sofferenza)”. La formazione di questo movimento si situa tra il 100 a.C. e il 100 d.C. Il Mahāyāna pone grande enfasi sull’impegno concreto di liberare gli altri più che sulla ricerca del proprio Risveglio personale, come invece indicavano gli insegnamenti più antichi (Theravāda). Ciò trova espressione nell’ideale del bodhisattva (“essere illuminato”) che fa voto di impegnarsi instancabilmente durante un numero infinito di vite per guidare gli altri esseri al nirvāna: egli si impegna con ogni mezzo per aiutare tutti gli esseri, incoraggiandoli, attenuando le loro sofferenze, e insegnando il Dharma, indicando così loro la via della liberazione.

Il Mahāyāna pone grande enfasi sulle due virtù della compassione e della saggezza e il bodhisattva pratica le sei virtù conosciute come le “sei perfezioni” (pāramitā):

  • 1) del dare;
  • 2) la moralità;
  • 3) la pazienza;
  • 4) lo sforzo;
  • 5) la concentrazione meditativa;
  • 6) la saggezza.

Un’importante innovazione dell’etica Mahāyāna è l’introduzione della cosiddetta dottrina degli “abili mezzi”, il cui fondamento va cercato nell’abilità con cui Buddha insegnava il Dharma adattandolo alle persone a cui lo trasmetteva. Il Mahāyāna sviluppò a fondo quest’idea sostenendo che gli insegnamenti antichi non solo erano stati trasmessi abilmente, ma erano di per se stessi, nel loro complesso, un “abile mezzo”.

Quest’affermazione presenta notevoli implicazioni dal punto di vista etico. Se infatti si ritiene che gli insegnamenti antichi avevano un carattere relativo, anche i precetti che essi contenevano possedevano una portata non assoluta. Perciò le regole che nelle fonti antiche proibivano certi tipi di azioni, avrebbero potuto essere considerate come degli obblighi solo per chi si trovasse in uno stadio preliminare del cammino spirituale, ma non vincolanti per tutti. In particolare, i bodhisattva rivendicarono una maggiore flessibilità morale fondata sul riconoscimento dell’importanza della compassione, permettendo talvolta loro di infrangere i precetti.

Conclusione

Gli insegnamenti morali buddhisti sono radicati nella legge cosmica del Dharma e chiunque ne rispetta i precetti può aspettarsi delle buone conseguenze karmiche, come la felicità in questa vita, una buona rinascita in quella seguente, e infine il conseguimento del nirvāna. Gli insegnamenti morali buddhisti pongono grande enfasi sull’autodisciplina (specialmente per coloro che hanno scelto la vita monastica), sulla generosità, sulla nonviolenza e sulla compassione. Il buddhismo Mahāyāna, poi, presta particolare attenzione al servizio per gli altri, il quale a volte è sfociato in un conflitto tra la compassione da offrire e i precetti da rispettare.