Come si sarebbe giustificato Don Abbondio se un giornalista l'avesse intervistato?
Cosa avrebbe scritto Lucia in un diario durante il suo sequestro?
Quali potevano essere i pensieri, i sentimenti della madre di Cecilia al sopraggiungere della morte della sua bimba?
Immaginate di essere il giornalista che raccoglie le parole di Don Abbondio, mettetevi nei panni di Lucia o in quelli della madre di Cecilia e scrivete, in alcune pagine di diario, quello che le due donne hanno provato in quei momenti drammatici.
L'intervista "impossibile" a Don Abbondio
Giornalista: Sono a casa del curato don Abbondio per poter fare due chiacchiere, una donna anziana di nome Perpetua mi offre una tazza di vino, dopodiché cominciamo.
G.: Signor curato, qual è stata la ragione che l’ha spinta a diventare sacerdote?
Don Abbondio: A dirla tutta non l’ho deciso io; mi sentivo come un vaso di terracotta costretto a viaggiare con molti vasi di ferro, così diedi retta ai parenti. Vivere agiatamente e mettermi in una classe riverita mi sembrarono ragioni sufficienti.
G.: Qual è il suo ruolo nella vicenda riguardante i promessi sposi Renzo e Lucia?
D. A.: Essendo il curato del paese, avrei dovuto sposare i due giovani.
G.: Perché il matrimonio non c’è stato?
D. A.: Sono stato minacciato dai bravi, mandati da don Rodrigo ed essendo una persona molto debole, ho sempre evitato di entrare in contrasto con i più forti.
G.: Come si difende dai nobili ricchi e violenti?
D. A.: Mi schiero con il più forte, facendo comunque capire all’altro che io non lo considero nemico; insomma, in questo modo son riuscito a passare i sessant’anni senza gran burrasche.
G.: Lei ha imparato qualcosa dalla vicenda?
D. A.: Ho imparato a non farmi mettere i piedi in testa, ma non nego d’avere ancora molti incubi che disturbano il mio sonno.
G.: Signor curato, quando il cardinal Borromeo lo ha invitato a recarsi al castello dell’Innominato per liberare Lucia, qual è stata la sua reazione?
D. A.: Beh, essendo al cospetto dell’egregio cardinale, non potevo far altro che accettare l’incarico, anche se non nego il fatto di aver cercato di sfuggire all’impegno, intimorito da quali sarebbero potute essere le conseguenze.
G.: È riuscito nell’intento?
D. A.: Sì, dopo aver preso Lucia, sono rientrato subito nel mio paese, dopo essermi inventato di avere delle faccende troppo importanti per essere rimandate; non posso non pensare alla mia incolumità!
G.: Ma signor curato, come fa a pensare solo alla sua incolumità?
D. A.: Beh, in questi casi è la cosa più importante!
G.: Punti di vista! Ora direi di passare ad altre domande. Come andò a finire la vicenda? Sposò i due promessi sposi?
D. A.: Sì, essendo comunque una persona di buon cuore, ho deciso di sposarli, naturalmente dopo la morte di don Rodrigo! Volevo essere sicuro di non correre rischi.
G.: Bene padre, grazie dell’intervista, avremo modo di incontrarci ancora, arrivederci.
D. A.: Arrivederci a lei.
Marianna Sias
Ci troviamo nella chiesa in cui opera il curato don Abbondio, per farci rilasciare un’intervista; ci accoglie in sacrestia. Dopo esserci salutati, cominciamo:
Intervistatore: A che età giunse la vocazione?
Don Abbondio: Ero molto giovane, mi accorsi fin da subito di vivere in una società in cui mi sentivo come un vaso di terracotta costretto a stare in compagnia di tanti vasi di ferro. Ascoltando vari consigli, presi la decisione di diventare curato. Diciamo che non ho avuto una vera e propria vocazione, ma il motivo principale è che nel ruolo di curato mi sarei sentito più protetto.
Intervistatore: Bene, passiamo a ciò che gli è accaduto la sera del giorno 7 novembre. Può ricordare gli eventi?
Don Abbondio: Mi trovavo, come mia abitudine, su una stradicciola nei pressi di Lecco. Mentre pregavo, mi accorsi che due bravi sostavano lì a pochi metri come per attender qualcuno. Capii fin da subito che l’unico che potessero aspettare fossi io. Non avendo un cuor di leone, avrei preferito tornare indietro, ma era lo stesso che dire “inseguitemi” o peggio. Dunque, non mi restò che andare incontro al pericolo ma, certo è, che non ero tranquillo.
Intervistatore: Che cosa volevano da lei questi due delinquenti?
Don Abbondio: Scoprii che erano stati mandati dal signorotto del paese, don Rodrigo, invaghito di una ragazza prossima al matrimonio. Mi ordinarono di annullare il matrimonio, programmato per il giorno seguente, tra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella. Pronunciarono una frase che ancora mi risuona nelle orecchie: “Questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai”.
Intervistatore: Come reagì lei a tale comando?
Don Abbondio: Non potevo che ubbidire. Impaurito, dissi ai due bravi che, per il rispetto che provavo nei confronti di don Rodrigo, non avrei celebrato il matrimonio.
Intervistatore: Perché lei, uomo di grande importanza per la società, diede ascolto a due delinquenti?
Don Abbondio: È chiaro, avevo molta paura; mi minacciarono di morte ed io non volevo rischiare. Quindi, come mio solito, decisi di schivare anche quest’ostacolo che mi avrebbe creato, sicuramente, dei problemi. Nella mia vita ho sempre cercato di evitare sia gli ostacoli sia i problemi. Preferisco essere egoista piuttosto che creare scompiglio nella mia vita.
Intervistatore: Come la presero i due promessi sposi?
Don Abbondio: A dir la verità non sono stato sincero con loro. Ho preferito accampare loro scuse piuttosto che raccontare come veramente erano andate le cose. La loro reazione non fu delle migliori. Riuscii a convincerli del fatto che non potevo celebrare il matrimonio, non avendo controllato che tutte le carte fossero in regola, rimandandolo di una settimana.
Intervistatore: Si tenne tutto per lei o ne parlò con qualcuno?
Don Abbondio: Inizialmente pensai di tenermi tutto per me come mi avevano ordinato i bravi, ma dopo ripetuti tentativi di convincimento da parte di Perpetua, la mia serva, decisi di confidarmi con lei, facendole giurare che non avrebbe aperto bocca con nessuno, ma probabilmente lei parlò con Renzo di quanto accaduto.
Intervistatore: Dopo una settimana sposò io due giovani?
Don Abbondio: No, non mi fidai di assumermi questa grande responsabilità. Renzo venne a sapere la verità sul fatto che il matrimonio non fosse rimandato per mia scarsa diligenza, ma perché fui minacciato da don Rodrigo.
Intervistatore: Perché andò a liberare dal castello dell’Innominato Lucia, anche avendo paura?
Don Abbondio: Sono stato obbligato dal cardinale, non potevo certamente dirgli di no.
Intervistatore: Perché sposò i due giovani solo dopo essersi assicurato che don Rodrigo fosse morto?
Don Abbondio: Ovvio, perché non volevo correre nessun rischio!
Intervistatore: Bene, signor Curato, grazie per la sua disponibilità. Avremo modo di rivederci.
Don Abbondio: Arrivederci.
Martina Murru
Il diario di Lucia durante la lunga notte nel castello dell'Innominato
Caro diario,
È buio, ho freddo, mi sento confusa e spaventata, devo cercare di capire cosa sta accadendo e poi... affidarmi a Dio. Devo sforzarmi di ricordare e ricomporre come in un quadro quello che mi è accaduto.
Abito nel convento di Monza ormai da qualche tempo. Le altre persone sono alquanto strane e sospettose, l’unica che sembra felice della mia presenza è Gertrude, una monaca di questo convento; lei è simpatica, anche se a volte fa domande imbarazzanti, ed è stata ospitale con me. Oggi però mi ha fissato un appuntamento nella sua stanza per le 15.00: sono preoccupata, mi sorgono mille domande; è strano questo “appuntamento” perché solitamente ci vediamo nel giardino o nel parlatorio.
Alle 15.00 mi dirigo verso la sua stanza e, mentre cammino, il mio sesto senso mi trasmette strane sensazioni e nella mia testa tanti pensieri bui si affollano.
Busso la porta per tre volte, dopodiché sento la sua voce che, con un tono più gentile del solito mi dice di entrare; varcata la porta, la mia ansia sale, mi chiede cortesemente di sedermi perché deve chiedermi un favore, aggiungendo: “solo di te mi fido così tanto da chiederti una cortesia banale, ma molto importante per me”.
Io, con aria stranita e lo sguardo confuso, la lascio parlare. Tra un giro di parole e l’altro mi chiede di uscire dal convento e andare dal padre guardiano dei Cappuccini per spiegargli che la “Signora” aveva urgente bisogno di parlargli.
Dopo aver ascoltato la sua richiesta, le chiedo di esimermi da tale compito. Ma lei si mostra dispiaciuta e delusa, ci rifletto su cinque minuti e alla fine arrivo alla conclusione che non è un compito troppo pericoloso e che farle questo favore è un modo per ripagarle il debito per la sua ospitalità.
Le dico di sì e mentre le spunta un sorriso nel viso, mi spiega la strada da percorrere. Dopo aver sentito il tragitto non sono più tranquilla, si tratta di percorrere strade deserte e disabitate, ma ormai ho dato la mia parola e non posso tornare indietro. Mi dà un abbraccio, mi ringrazia e mi raccomanda di rientrare presto.
Dopo aver camminato per qualche minuto, incontro una carrozza: è ferma e, appoggiati ad essa, ci sono due ragazzi, sono giovani e sembrano spaesati, infatti è come pensavo, mi stanno fermando per chiedermi informazioni stradali. Mi fermo per aiutarli ma, come mi giro per indicare la strada, sento due mani nei fianchi che mi sollevano in aria. Sono spaventata, cerco invano di liberarmi scalciando e muovendomi in tutte le direzioni con tutta la mia forza, mi stanno mettendo dentro la carrozza e dato che sto urlando mi mettono un bavaglio, continuo ad urlare ma in queste strade non passa nessuno che possa sentirmi ed aiutarmi. Ho paura e sento in tutto il corpo brividi di freddo, mi dicono che se sto ferma e in silenzio non mi faranno del male, lo ripetono più volte, gli domando perché mi hanno rapito, ripeto loro che hanno sbagliato persona e che io sono innocua, ma loro, chiamandomi con il mio nome completo, dicono che stanno cercando proprio me.
Prego Dio che mi stia vicino e che non mi succeda niente. Sento la carrozza rallentare e, mentre mi tolgono il fazzoletto, sento la voce di una donna, assomiglia a quella di mia madre, sono in parte rincuorata, ma non voglio che a mia madre venga fatto del male.
Scendo dalla carrozza, ma al vedere la donna tutti i miei pensieri svaniscono: non è mia madre, è una donna che mi chiede di seguirla, aggiungendo che se faccio quello che mi chiede senza opporre resistenza non mi succederà niente. La seguo e dopo aver fatto cinquecento metri raggiungiamo un palazzo e poi una stanza buia, entriamo ed è come una prigione, buia e fredda.
La donna parla, parla, ma io non riesco ad ascoltare, sono persa nei miei pensieri, nelle mie paure e nelle preghiere.
È passata forse un’ora e la donna si è addormentata. Entra un uomo che subito la sveglia chiedendole perché ero così spaventata da arrivare a pregare che vada tutto bene. Sentendo le parole dell’uomo, mi tranquillizzo perché sembra che si stia preoccupando per me, le chiedo spiegazioni, ma lui mi dice di non preoccuparmi che non mi succederà nulla di male, gli chiedo di lasciarmi andare, lo imploro dicendogli: “Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!”, ma lui mi dice di dormire tranquilla che ci saremo visti l’indomani mattina, se ne va.
Ora posso solo confidare nel Signore.
Giada Tumbarinu
Caro Diario,
sto vivendo una situazione terrificante, sono sconvolta da tutto questo. Oggi è venerdì ma non è lo stesso venerdì che di solito passavo in convento a Monza. Non so bene dove mi trovo, so solo che mi trovo in un angolino di una stanza squallida e sporca di un castello, sono rannicchiata su me stessa, triste e disperata, in compagnia di un’anziana signora che non so neppure chi sia.
Stamattina mi trovavo nel mio convento, dove io e mia madre siamo state ospitate, quando mi mandò a chiamare Geltrude, la monaca con cui io passo la maggior parte del mio tempo in convento. Mi dirigo verso il parlatorio, pensando a cosa doveva dirmi di così importante.
Quando busso alla sua porta, mi accoglie e mi fa accomodare. Geltrude è più gentile del solito; con carezze e sorrisi mi chiede un grosso favore. La ascolto con attenzione, lei parla e a me vengono in mente una marea di cose da chiederle, mi dice che solo io posso aiutarla, che solo di me si fida.
Mi spiega che ha urgenza di parlare con il padre guardiano dei Cappuccini ma che nessuno deve saperlo, capisco allora che si tratta di uscire dal convento, vorrei rifiutare di fare questo favore. Vedo che lei sta capendo che non sono molto disposta, noto nel suo viso il dispiacere e capisco che, se non lo farò io, non lo farà nessun altro e mi sento in colpa. Le chiedo di spiegarmi cosa devo fare, mi spiega che devo dirigermi al convento dei Cappuccini, cercare il padre guardiano e dirgli di dirigersi qui al convento di Monza perché ha bisogno di parlargli. Questa richiesta mi spaventa: avrei dovuto percorrere un bel pezzo di strada da sola, ma non mi rimaneva che accettare.
Mi spiega la strada che devo percorrere, esco dalla stanza e inizio a incamminarmi.
Ho paura, sono sola, non c’è neppure un cagnolino in questa strada, è completamente deserta, piena di pietre e buchi. Dopo alcuni curvoni, intravedo una carrozza ferma con due uomini a terra.
Un po’ mi tranquillizzo, ma solo per poco tempo: quando inizio ad avvicinarmi, noto il loro aspetto poco gradevole, mi salutano e mi chiedono informazioni della strada per Monza.
Come mi giro per mostrargli la strada, due mani decise mi afferrano alla vita e mi tirano su; inizio a gridare, mi passano mille cose per la testa! L’uomo mi getta dentro la carrozza, io continuo a gridare, cerco di scappare, sono terrorizzata, anche se gridare è inutile: in questa strada non ho incontrato nessuno, tranne questa maledetta carrozza.
Mi mettono un fazzoletto nella bocca, riesco a mala pena a respirare, mi bloccano le braccia. Mi sento male, ho paura. mi trovo con degli uomini e non so chi siano, non so cosa mi faranno e dove mi porteranno, non riesco a comprendere cosa ho fatto di male per ottenere tutto questo.
Sento il cuore battere sempre più forte, svengo, mi danno dei colpetti sulla spalla. Saranno passate forse tre ore e ancora viaggiamo... dove mi staranno portando?
A un certo punto la carrozza frena di colpo, io rimbalzo e finisco dall’altra parte. Sento una voce, sembra un’anziana signora, questo mi tranquillizza. Mi fanno scendere e mi fanno andare con lei; ci dirigiamo nelle scale di un castello e mentre salgo, la disperazione si fa spazio nel mio corpo.
La donna cerca di calmarmi; le chiedo chi è, ma anche lei risponde che non mi farà del male e che è con me per farmi coraggio.
Mi porta in questa lugubre stanza dove mi trovo in questo momento e, da quando sono entrata, non mi sono mossa da questo angolino. Poco fa è entrato un uomo e ha chiesto alla donna perché mi ha lasciato in quell’angolo; sembra preoccupato per me, ma magari anche lui è complice di tutto questo. Io intanto prego Dio che mi aiuti a risolvere quest’incubo, chiedo all’uomo di liberarmi, prego, gli dico: “Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!”
Lui non risponde, ascolta le mie preghiere e mi guarda, forse prova compassione. Ogni tanto alzo la testa, lo guardo sperando mi dica qualcosa, ma dopo un po’ mi dice che domani mattina mi lasceranno andare.
Non so come passerò la notte, ma chiederò aiuto al Signore.
Spero che le mie preghiere mi aiutino e che domani tutto questo abbia fine.
Giorgia Sardu
Il diario delLa madre di Cecilia
Caro Diario,
sono straziata, oggi, sedici giugno, è una data terribile. La peste si è diffusa rapidamente, io sono in casa e dalla finestra sento le urla delle madri che devono abbandonare i propri figli ormai morti. Capisco il loro dolore, tra le mie braccia stringo mia figlia Cecilia ormai moribonda, non riesco a piangere per il dolore che provo, non ho più le forze. Mia figlia sta male, da tre giorni ha la febbre altissima, è piena di bubboni sul corpo; non riesce a muoversi, non parla ed io non posso fare niente.
Guardo fuori e penso che anche mia figlia si ritroverà presto assieme a quei bambini su quell’orribile carro; è una cosa tremenda da dire e pensare, ma la guardo e vedo il suo sguardo spento, sento che non ce la farà. Mi viene in mente mio marito e mi spunta un leggero sorriso pensando che potranno incontrarsi di nuovo; quanto vorrei poterlo abbracciare in questo momento e condividere con lui il dolore che sto provando. Anche io, assieme agli altri miei figli siamo stati contagiati come Cecilia, infatti so che anche per noi arriverà la fine e questo mi fa star male ancora di più.
Riguardo tra le mie braccia la piccola fanciulla e noto che il suo respiro si fa sempre più debole finché non cessa.
In quel momento, un dolore lancinante mi trafigge il petto e nello stesso momento due lacrime mi rigano il viso. In un millesimo di secondo tutti i sogni che avevo in mente dalla sua nascita sono svaniti. Non potrò più vederla crescere, giocare, ridere, piangere, aiutarla nei momenti in cui avrebbe avuto bisogno, darle dei consigli, avere un marito che l’avrebbe amata e avere tanti bambini, dei nipotini per me, che avrei amato e voluto bene come ne voglio alla mia piccola Cecilia. Niente di tutto questo ora potrà mai accadere.
Poso delicatamente Cecilia sul suo lettino e cerco il suo abito preferito, un abito bianco che usava solo per i giorni di festa. La vesto e mi fermo un po’ a guardarla. Non si muove, sembra quasi un angelo e questa immagine mi fa venire i brividi.
Il carro dei monatti sta per passare nella mia via, quindi riprendo Cecilia tra le mie braccia e, affaticata, scendo le scale e attendo sulla soglia dell’uscio dove intravedo il carro. Il monatto è fermo e aspetta che io gli dia la mia bambina per gettarla sul carro sopra gli altri cadaveri, ma io non voglio che le si faccia questo; quindi porgo una piccola borsa piena di monete al monatto chiedendogli di non levarle un filo d’intorno e che non venga fatto da nessun altro.
Lui si mette la mano sul petto promettendo che non lo farà, così poso il mio piccolo angelo sul carro, le do un bacio sulla fronte, la guardo e le dico, sperando che mi senta, che le voglio bene e che presto ci rincontreremo.
Il monatto sale sul carro e la porta via assieme a tutti gli altri bambini. Provo un dolore indescrivibile.
Torno su e guardo i miei bambini che dormono, mi abbandono nel letto con loro, pensando che presto moriremo anche noi e subito dopo mi addormento in un sonno profondo.
Marika Inzis
Materiali utilizzati per la valutazione dei compiti
Credits: Illustrazioni di Francesco Gonin per l'edizione de I promessi sposi del 1840
Lavoro realizzato dalla Classe 2^N - I.I.S. "G. A. Pischedda" - Bosa (OR)