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BuddHismo Conoscenza

Sulle orme del Buddha

I piedi del Buddha-Thailandia-Wat Phra Doi Suthep - FOTO DI SARA NOVENTA

Il buddhismo

Spesso annoverato tra i nuovi movimenti di origine śramaṇica apparsi nel periodo tardo-vedico, il buddhismo (o "Via del Buddha") è una tradizione spirituale sviluppatasi in India in seguito all'Illuminazione e alla predicazione di Siddhārtha Gautama, detto il Buddha (VI-V sec. a.C.). Allontanandosi dalle convinzioni brāhmaniche (ossia respingendo l'autorità dei Veda, la pratica del sacrificio e i divieti castali), il suo insegnamento mirava ad aiutare tutti gli esseri senzienti a superare il dolore e la sofferenza attraverso le Quattro Nobili Verità.

Buddha-Thailandia-Sukhothai - FOTO DI SARA NOVENTA

Si racconta che il Buddha abbia "messo in moto la ruota del Dharma" (ossia abbia tenuto il suo primo sermone) a Sārnāth, nel Parco delle Gazzelle, ma che nei quarantacinque anni successivi si sia dedicato ad una vita itinerante che lo portò ad insegnare in luoghi e a persone diverse, senza distinzione di casta o di genere, sino alla morte e all'ingresso nel nirvāṇa definitivo.

Buddha insegna ai suoi discepoli-Thailandia Wat Phra Doi Suthep - FOTO DI SARA NOVENTA

Dopo che il Buddha ebbe lasciato questo mondo, la comunità dei monaci (saṃgha) cominciò ben presto a conoscere alcune divisioni interne, che sfociarono nella formazione di scuole che interpretavano in vari modi l'insegnamento originario. Con il concilio di Rājagṛha (483 a.C.), si cercò di riportare l'armonia nella comunità monastica stabilizzando il canone della dottrina e della disciplina, regolamentando così la corretta trasmissione orale degli insegnamenti. Circa settant'anni dopo, una nuova minaccia all'unità del saṃgha giunse in seguito ai comportamenti lassisti di alcuni monaci di Vesālī, che furono contrastati in un secondo concilio da cui scaturì la prima grande spaccatura in seno alla comunità monastica, tra il Theravāda «ortodosso» (Sthaviravāda) e la scuola Mahāsaṃgha (o Mahāsaṃghika), caratterizzata da una sua peculiare interpretazione del canone e dalla tendenza a soprassedere ad alcuni divieti disciplinari.

La morte del Buddha-Thailandia-Wat Phra Doi Suthep – FOTO DI SARA NOVENTA

Le divisioni successive in seno al gruppo degli Sthaviravāda resero necessario un ulteriore concilio (Pāṭaliputta, 245 a.C.), durante il quale venne compilato l'Abhidhammapiṭaka, si decise di procedere all'invio di monaci in diverse aree del subcontinente indiano e nei territori extra-indiani, e si assistette alla netta separazione tra le correnti del Theravāda «ortodosso» e la scuola Sarvāstivāda.

La proliferazione di nuove correnti interpretative, tuttavia, non si fermò, tanto che la storia del buddhismo originario conta la presenza di almeno diciotto scuole, di cui sopravvive oggi soltanto il Theravāda ("buddhismo degli anziani").

Tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C. si assiste alla nascita di gruppi buddhisti dal respiro più universalistico, che sono stati riuniti sotto il nome di Mahāyāna ("Grande Veicolo"). Desiderando approfondire ed ampliare le dottrine e gli insegnamenti originari, proponevano nuove argomentazioni che trasmettevano attraverso nuovi linguaggi, in modo da favorire la realizzazione della reale natura delle cose da parte di tutti gli esseri senzienti. La grande novità del Mahāyāna è che l'Illuminazione non è più un privilegio della sola comunità monastica, come sostenuto dal Theravāda, bensì una possibilità rivolta a tutti, inclusi i laici e le laiche. Sarà questa la forma di buddhismo che conoscerà maggiore diffusione in Asia orientale ed estremo-orientale.

Tra il VI e il VII sec. d.C., in seno al buddhismo Mahāyāna si sviluppò una tradizione di ispirazione esoterica che molto presto raggiunse una certa autonomia, presentandosi come un nuovo veicolo capace di condurre rapidamente all'Illuminazione. Siamo di fronte alla nascita del buddhismo Vajrayāna (letteralmente "Veicolo di Diamante", o "Veicolo Adamantino"), noto anche come "buddhismo tantrico", in virtù della sua letteratura di riferimento: i Tantra. Questa tradizione, prendendo atto dell'importanza che i laici attribuivano al rituale, assorbiva pratiche e credenze popolari nelle società agricole, risentiva degli influssi delle pratiche rituali hindūiste ed ammetteva nel pantheon buddhista anche alcune figure femminili venerate dagli hindū.

Il buddhismo Theravāda

Papa Francesco in Myanmar, incontro con i monaci buddhisti (29/11/2017) in: https://www.avvenire.it/papa/pagine/papa-myanmar-messa-perdono-contro-violenza

Unica sopravvissuta delle diciotto scuole originarie, la tradizione Theravāda è nota anche come "buddhismo degli anziani", in virtù della sua pretesa vicinanza allo spirito originario dell'insegnamento del Buddha.

Diffusosi prevalentemente nei Paesi del sud-est asiatico (es. Birmania, Cambogia, India, Laos, Thailandia e Śri Laṇka), si presenta come un buddhismo dal carattere fortemente élitario, che consente il raggiungimento dell'Illuminazione solo ai monaci di genere maschile che si incamminano lungo il sentiero che conduce alla condizione di arhat («il Venerabile»), che rappresenta l'ideale a cui tendere. L' arhat è colui che ha raggiunto il più alto livello spirituale, liberando la mente dalle illusioni di questo mondo e conquistando il nirvāṇa.

Le prime scuole del Mahāyāna guardarono in modo critico le convinzioni del Theravāda, nel quale rilevavano alcuni limiti. Per prima cosa, ritenevano che fosse discriminante offrire la possibilità della liberazione dal ciclo saṃsārico di morte e rinascita solo ai monaci di genere maschile, poiché il Buddha si sarebbe espresso in modo favorevole in merito all'Illuminazione delle donne. Un'ulteriore critica venne rivolta all'ideale dell'arhat, sostenendo che la preoccupazione per la sola personale estinzione nel nirvāṇa fosse espressione di un totale disinteresse per coloro che non avevano ancora avuto modo di essere illuminati. La presenza di questi limiti, che portavano ad escludere alcuni esseri senzienti dalla possibilità della salvezza, comportò la tendenza di rivolgersi al Theravāda con il termine Hīnayāna ("Piccolo Veicolo").

L'arhat

L'arhat («il Venerabile») coincide con il modello di santità riconosciuto dal buddhismo Theravāda e si identifica con il monaco che è riuscito a conquistare il più alto livello spirituale, uscendo dalle illusioni che contraddistinguono questo mondo e conquistando il nirvāṇa definitivo.

Percorrendo un sentiero che prevede quattro stadi (l’ingresso nella corrente buddhista con il conseguente proposito di abbandonare qualsiasi forma di attaccamento; il reale indebolimento dell’avversione e dell’attaccamento; i progressi spirituali e l'accesso all’estinzione definitiva -parinirvāṇa-), l'arhat è il prototipo dell'essere totalmente libero dai dieci vincoli che legano all'esistenza: credenza in un "sé" personale, lo scetticismo, la dipendenza dai riti e dalle regole, il desiderio sensibile, il rancore, la brama, la presunzione, l'agitazione e l'ignoranza.

Il Dhammapada («Parole di Dhamma») descrive l'arhat con queste parole:

Come la terra, egli non si oppone. Come il pilastro di Indra è costui, virtuoso, simile a un lago limpido. Egli non è soggetto al saṃsāra.
Calma è la sua mente, calme sono la sua parola e l’azione. Liberato grazie a una corretta conoscenza, egli è pacificato.
Non ha fede, è ingrato, è uno scassinatore, è un uomo che ha distrutto ogni possibilità, ha rigettato la speranza: egli è davvero un essere supremo.

Egli è colui che ha depositato il fardello, che ha raggiunto lo scopo dell'insegnamento buddhista, si è liberato grazie all'ottenimento della perfetta conoscenza. Da vivo, egli ha raggiunto uno stato di perfezione spirituale, ma soltanto con la morte fisica potrà definitivamente estinguersi nel nirvāṇa, quando i cinque aggregati (o skandha) svaniranno definitivamente dal mondo fenomenico, liberandolo completamente dalla miseria del saṃsāra.

I cinque aggregati: secondo il pensiero buddhista, la persona umana è composta da cinque fattori (forma, sentimenti, percezioni, volizioni e coscienza) strettamente interrelati.

Il buddhismo Mahāyāna

Hōryūji-Giappone-Nara-Scuola Hossō - FOTO DI SARA NOVENTA

Noto anche come "Grande Veicolo", il Mahāyāna è la tradizione buddhista che, più delle altre, ha preso piede in Asia orientale (Cina, Corea, Giappone e Vietnam). Apparso nel panorama spirituale indiano tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C., si distinse per l'adozione di un approccio metafisico sofisticato e un'apertura di carattere universalistico. Attingendo dalla profonda saggezza delle scuole Mahāsaṃghika e Sarvāstivāda, questa corrente buddhista condivide con il Theravāda gli insegnamenti trasmessi dal Buddha storico, ma differisce da esso per l'accentuazione di alcuni aspetti dottrinali.

Le dieci paramitā sono: la perfezione del dono; la perfezione della moralità; la perfezione della pazienza; la perfezione della virile energia; la perfezione della meditazione; la perfezione della suprema saggezza; la perfezione degli abili mezzi; la perfezione del voto; la perfezione della forza e la perfezione della gnosi.

Questa tradizione si definisce mahā (grande) soprattutto per l'apertura rivolta al mondo dei laici: l'Illuminazione e l'ingresso nel nirvāṇa non sono più appannaggio dell'ordine monastico, ma possibilità offerte a tutti gli esseri senzienti, qualunque sia lo stato di vita che conducono. Aiutati dai maestri, dai Buddha e dai bodhisattva che intervengono nella storia attraverso gli "abili mezzi" (upāya), i praticanti possono incamminarsi verso il raggiungimento del nirvāṇa, termine con cui il Mahāyāna intende sia l'interruzione del ciclo saṃsārico di morte e rinascita, sia la scoperta di un'Illuminazione innata, di una natura-di-Buddha (tathāgatagarbha) intrinseca al proprio essere. Compare per la prima volta l'ideale del bodhisattva, riconosciuto come modello di santità che supera l'arhat. Mosso da una profonda compassione per le sofferenze altrui, egli sceglie di rinunciare temporaneamente al nirvāṇa fino a quando tutti gli esseri senzienti non saranno illuminati, privilegiando la salvezza dell’umanità alla propria. Per giungere a una tale condizione, era ed è necessario intraprendere un lungo percorso spirituale composto da dieci livelli nei quali si interiorizzano le dieci perfezioni o virtù (pāramitā) approfondite dalla letteratura della Prajñāpāramitā.

Al Mahāyana viene anche attribuito l'avvio di un processo di idealizzazione del Buddha, che porta al riconoscimento del suo carattere trascendente. Ad esplicitare meglio questo pensiero sarà la scuola Yogacāra, che nel IV sec. sviluppò la "dottrina del Trikāya" ("dottrina dei Tre Corpi del Buddha").

Tra le principali correnti che afferiscono a questa tradizione ricordiamo le scuole cinesi Sānlùn, Fǎxiàng, Tiāntái, Huáyán, la scuola della Terra Pura (Jìngtǔzōng) e il Chán; le scuole giapponesi Ritsu, Hossō, Kegon, Tendai, Nichiren, Zen (Rinzai, Sōtō e Ōbaku), le scuole della Terra Pura (Jōdō, Jōdō Shin e Ji); il Seon coreano e le scuole vietnamite Hoa Nghiêm, Thiền e Tịnh độ.

Byōdōin-Giappone-Uji-Scuola Jodo-shu - FOTO DI SARA NOVENTA

La via del bodhisattva

Bodhisattva Jizo e Kannon dello Hasedera-Giappone-Kamakura - FOTO DI SARA NOVENTA

Il modello di santità proposto dal buddhismo Mahāyāna è incarnato dalla figura del bodhisattva, colui che, dopo aver intrapreso la via che conduce alla perfetta buddhità (il «sentiero del bodhisattva»), sceglie volontariamente di rinunciare al nirvāṇa fino a quando tutti gli esseri senzienti non saranno illuminati. Il bodhisattva, avendo compreso che gli «esseri» non sono altro che flussi di dharma vuoti, che nella loro nescienza fanno esperienza di «se stessi» come di «esseri sofferenti», si sente profondamente toccato dal loro dolore. Consapevole dell'esistenza di un'intima connessione che unisce tutti gli esseri senzienti, poiché essi non sono che «intrecci interdipendenti di un’infinita trama», realizza che lo sforzo messo in atto per la salvezza personale non può che implicare la totale e compassionevole dedizione alla salvezza di chi è ancora immerso nell'illusione.

Il sentiero del bodhisattva ha inizio con la compassione verso tutti gli esseri, come dimostra questo passo tratto dal Bhāvanākrama («La progressione della meditazione»), di Kamalaśīla:

Ed è detto nel venerabile Gayāśīrṣa: «“O Mañjuśrī, con cosa inizia la pratica (caryā) dei Bodhisattva? E su cosa si basa?” Mañjuśrī rispose: “O Devaputra, la pratica dei bodhisattva ha per inizio la Grande compassione, si basa sugli esseri”» ecc. Infatti, mossi da essa, i Bodhisattva, senza badare a sé stessi -avendo come scopo unicamente il vantaggio degli altri-, si sforzano di acquisire gli equipaggiamenti [di virtù e di saggezza], sebbene si tratti di un’impresa estremamente difficile che richiede molto tempo ( KAMALAŚĪLA, Bhāvanākrama, in R. GNOLI (a cura), La rivelazione del Buddha, vol. II, 852)

Dopo aver pronunciato i cosiddetti «voti del bodhisattva», il praticante inizia ufficialmente il suo cammino di crescita spirituale, cercando di realizzare le dieci perfezioni o virtù (pāramitā) descritte e spiegate nella letteratura sulla «Perfezione della Saggezza».

La “Perfezione della Saggezza”: insieme di opere di varia lunghezza, attribuite al Buddha, per lo più in forma di dialogo, tutte incentrate sull’idea che la massima virtù sia la saggezza (prajñā).

Le dieci virtù (dānapāramitā, la generosità o il dono; śīlaparamitā, la moralità; kṣāntipāramitā, la pazienza; vīryapāramitā, l'energia virile; dhyānaparamitā, la meditazione; prajñāpāramitā, la suprema saggezza; upāyakauśalyaparamitā, gli abili mezzi; pranidhānaparamitā, il voto; balaparamitā, le dieci forze; e jñānaparamitā, la conoscenza di tutti i dharma) possono essere acquisite attraversando dieci stadi, o "terre" (bhūmi), di progressione spirituale.

Dopo aver acquisito la «perfezione della saggezza» (prajñāpāramitā), identificata con un livello spirituale vicino a quello dell’arhat, il praticante potrebbe decidere di non rinascere più ed estinguersi definitivamente nel nirvāṇa, ma la «grande compassione» glielo impedisce. Nelle quattro «terre» successive, il bodhisattva è ormai divenuto un saggio celeste che padroneggia gli aspetti più sottili del Dharma, che attraverso gli «abili mezzi» (upāya), il trasferimento dei propri meriti e il ruolo di guida, aiuta ed istruisce gli esseri che risiedono nei diversi mondi affinché possano liberarsi dalle catene del saṃsāra. Giunto alla decima «terra» il bodhisattva, pur avendo raggiunto una perfezione tale da consentirgli la definitiva interruzione delle rinascite terrene, può procrastinare questo momento e proseguire con le rinascite celesti, fino a quando tutti gli esseri senzienti non saranno salvati. Solo allora farà esperienza del nirvāṇa definitivo.

Sebbene si tratti di un percorso lungo e difficile, che non può essere esaurito in una sola esistenza e che conduce a livelli di saggezza e conoscenza apparentemente irraggiungibili, i praticanti vengono esortati a vedere i bodhisattva come compagni di viaggio e modelli da imitare. Tra i bodhisattva più noti ricordiamo: Avalokiteśvāra (cin. Guānyīn e giap. Kannon/Kanzeon), bodhisattva della compassione; Kṣitigarbha (cin. Dìzàng Púsà e giap. Jizō), bodhisattva dei monaci e dei defunti, ma anche custode di tutti gli esseri senzienti fino alla venuta del "Buddha del futuro"; Mañjūśrī (cin. Wéshūshīlì e giap. Monjū), bodhisattva della saggezza e Maitreya (cin. Mílè e giap. Miroku), il bodhisattva che alla fine della nostra era cosmica verrà come "Buddha del futuro".

La dottrina dei Tre Corpi del Buddha (Trikāya)

Buddha Vairocana del Todaiji-Giappone-Nara - FOTO DI SARA NOVENTA

Nel corso della storia del buddhismo Mahāyana, il Buddha viene sottoposto ad un processo di destoricizzazione che lo trasforma in un'entità universale idealizzata, astratta ed eterna.

Per spiegare in che modo gli esseri senzienti, che abitano la dimensione del relativo, possano accedere agli insegnamenti dell'Illuminato e realizzare la corretta visione della realtà, la scuola Yogacāra, nel IV sec., formula la dottrina dei Tre Corpi del Buddha (Trikāya). Questa dottrina si presenta come un'evoluzione dell'insegnamento offerto nel capitolo XV del Sūtra del Loto, ove il Buddha afferma che la sua buddhità è di molto anteriore alla sua nascita come Siddhārta Gautama e che la sua predicazione ha avuto inizio quando assunse le forme dei buddha del passato, rivelandosi come entità trascendente che si è manifestata nel mondo attraverso il Buddha storico e i vari buddha che lo hanno preceduto nel corso delle diverse ere cosmiche. Secondo la dottrina del Trikāya, la buddhità possiede tre aspetti: Dharmakāya ("Corpo della dottrina"), Nirmanakāya ("Corpo di verità"), e Sambogakāya ("Corpo di gioia").

L'uomo comune impara a conoscere la reale essenza del Buddha attraverso l'apprendimento della dottrina, dall'insegnamento che è stato conservato e trasmesso dai discepoli del Buddha. Confrontandosi con le parole del Tathāgata ed approfondendone contenuti e significati, tutti gli esseri ricevono la possibilità di sentirsi accompagnati dall'Illuminato lungo il sentiero che conduce alla liberazione definitiva. Quando la mente del praticante si è distaccata dall'attaccamento, ha superato il dualismo soggetto-oggetto, allora può fare piena esperienza del Dharmakāya.

Se gli esseri possono realizzare l'Illuminazione attraverso l'adesione e la conoscenza della dottrina, questo è dovuto esclusivamente all'attività predicativa dei buddha che si sono manifestati e si manifesteranno nei diversi periodi storici. Quando i buddha terreni entrano nella storia dell'umanità per indicare la via, allora siamo di fronte al Nirmanakāya.

La dottrina e i buddha storici sono, dunque, degli abili mezzi usati dal Buddha glorioso e compassionevole (Sambogakāya) per aiutare tutti gli esseri senzienti. Spesso rappresentato come un essere avvolto da un manto di luce e adorno dei suoi trentadue attributi, frutto dei meriti ottenuti lungo il sentiero del bodhisattva, appare impegnato nell'atto di insegnare per presenza diretta ai bodhisattva che risiedono nel suo Cielo, e a coloro che, avendo raggiunto una certa levatura spirituale, possono visualizzarlo nella meditazione profonda. Questo terzo "corpo" offre una rappresentazione simbolica della possibilità di liberarsi grazie ai meriti acquisiti da ogni essere senziente.

Il buddhismo Vajrayāna

Lhasa e Palazzo Potala (13/03/2016) in https://www.avvenire.it/agora/pagine/tibet-

Il buddhismo Vajrayāna ("Veicolo di Diamante" o "Veicolo Adamantino") o "buddhismo tantrico" compare in seno al Mahāyāna tra il VI e il VII sec. d.C., come un nuovo veicolo che accoglie insegnamenti di ispirazione esoterica, trasmessi dal maestro al discepolo al di fuori dell'insegnamento dei sūtra canonici.

Questa tradizione si presenta come un'espressione sincretica e creativa che unisce i principi fondamentali del buddhismo con alcune credenze popolari e pratiche di ispirazione hindū. La vicinanza al tantrismo hindūista risulta evidente nello sviluppo dell'idea di poter fare esperienza dell'Illuminazione anche affrontando e sublimando le realtà e le esperienze che legherebbero gli esseri al saṃsāra, perché la nozione di origine mahāyānica dell'immanenza della natura-di-Buddha (tathāgatagarbha) sarebbe applicabile anche laddove è previsto il coinvolgimento dei sensi e delle passioni. Ciò che in passato era ritenuto fonte di illusione e attaccamento, ora diventa strumento di liberazione, in virtù dell'identità esistente fra conoscenza pura e impura, fra assoluto e relativo. Al praticante viene affidato il compito di purificare e dominare le forze che agiscono in lui e nell'universo tramite specifiche e molteplici azioni rituali.

Istruito dal suo maestro a riconoscere le corrispondenze che intercorrono tra corpo fisico, corpo spirituale e corpo cosmico, il praticante diventa lentamente cosciente dell'identità tra microcosmo e macrocosmo, tra realtà materiale e spirituale, tra sé e il Buddha. Questa è l'Illuminazione, ma per raggiungerla deve dedicarsi a pratiche di natura simbolica che esprimono il progredire del suo stato mentale: gesti delle mani (mudrā) ispirati alle immagini e agli attributi del corpo di un buddha; l'uso di strumenti come la campana e/o lo scettro vajra; la recitazione di lettere sanscrite (mantra) e/o formule rituali (dhāraṇī); la visualizzazione delle immagini e degli universi contenuti nelle rappresentazioni grafiche delle forze cosmiche (maṇḍala). Le pratiche rituali possono essere rivolte a buddha e bodhisattva menzionati nei testi tantrici, che includono anche figure femminili (es. la Śakti) provenienti dal pantheon hindūista.

La campana rappresenta il mondo condizionato dal cambiamento, mentre la sua impugnatura rappresenta il corpo del Dharma (P. HARVEY, An Introduction to Buddhism. Teachings, History and Practices, Cambridge University Press, Cambridge 19989, 135).

Il centro del vajra rappresenta il vuoto, i tre rigonfiamenti rappresentano il desiderio sensoriale, la forma pura e i mondi senza forma che emergono dal vuoto, mentre l'asse e i quattro o otto rebbi corrispondono ai principali buddha riconosciuti dal Vajrayāna (cfr. P. HARVEY, An Introduction to Buddhism, 135).

Maṇḍala. Cerchi o riquadri concentrici abitati da un Buddha o da una sua raffigurazione simbolica, all'interno dei quali il praticante si incammina in un itinerario spirituale che consente di risvegliare le sue potenzialità latenti.

Nella foto, Il Vajra e la campana - FOTO DI SARA NOVENTA

I nuovi orientamenti dottrinali sono stati promossi da diversi centri di studi apparsi tra l’VIII e il XII sec., il più noto dei quali è l'università di Nālandā situata nella regione indiana di Magadha. Dall'India, il Vajrayāna raggiunse anche la Cina e il Giappone, ma attecchì soprattutto in Tibet, dove affrontò un processo di sincretizzazione che coinvolse anche la religione autoctona nota come Bön. Tra le principali scuole afferenti al buddhismo Vajrayāna ricordiamo la scuola cinese Zhenyan, quella giapponese Shingon e le tradizioni tibetane bKa'gdams pa, rNying-ma pa, Sa-skya pa e dGe lugs pa.

Il CANONE BUDDHISTA

Era abitudine del Buddha trasmettere oralmente il suo insegnamento e, dopo la sua morte, i primi discepoli continuarono a seguire il suo esempio. Con la comparsa dei primi dissensi dottrinali, tuttavia, divenne necessario fare chiarezza. Durante il primo concilio si decise di cominciare a trascrivere le parole del Beato, non sappiamo con precisione in quale anno ebbe inizio la compilazione dei testi che sono stati riconosciuti come canonici.

Il buddhismo attuale conosce l'esistenza di tre canoni, che caratterizzano le tre principali tradizioni del buddhismo: il canone Tipiṭaka ("Tre canestri") caro al Theravāda ("Buddhismo degli anziani", detto anche Hīnayāna o "Piccolo Veicolo"), il canone cinese riconosciuto dal Mahāyāna ("Grande Veicolo") e il canone tibetano sviluppatosi all'interno del Vajrayāna ("Veicolo Adamantino").

Il Canone Tipiṭaka

Il canone Tipiṭaka ("Tre canestri") è noto anche come "canone pāli" poiché l'unica versione pervenutaci in forma completa è redatta in questa lingua letteraria. Esiste anche una versione sanscrita, ma si presenta piuttosto frammentaria. Composto probabilmente tra il secondo e il terzo concilio (Vesālī -383 a.C.- e Pāṭaliputta -245 a.C.-), è il canone riconosciuto dal buddhismo Theravāda.

Il nome Tipiṭaka fa riferimento alle tre parti principali di cui si compone: il Vinayapiṭaka ("Canestro della disciplina"), relativo alle norme di comportamento che i membri del saṃgha devono seguire; il Suttapiṭaka, ossia il "Canestro dei discorsi" pronunciati dal Buddha storico o dai suoi discepoli più noti, che è suddiviso in cinque raccolte (Dīgha Nikāya -"Raccolta [dei discorsi] lunghi"-, Majjhima Nikāya -"Raccolta [dei discorsi] medi"-, Saṃyutta Nikāya -"Raccolta [dei discorsi] riuniti"-, Aṅguttara Nikāya -"Raccolta [dei discorsi contenenti argomenti il cui numero è] in progressione"- e Khuddaka Nikāya -"Raccolta [dei testi] minori"-); e l'Abhidhammapiṭaka ("Canestro della dottrina"), un compendio dottrinale.

Se il Vinayapiṭaka e il Suttapiṭaka hanno riscontrato sin da subito i favori di tutta la comunità monastica, particolari divisioni sono emerse in seguito al dibattito sullo status da attribuire all'ultimo canestro, che ci è pervenuto pressoché integralmente nelle sole versioni dei Theravādin (redatta in sette libri in lingua pāli, risalenti agli inizi dell'era cristiana) e dei Sarvāstivādin (anch'essa composta da sette libri, ma in lingua sanscrita).

Il Vinayapiṭaka ("Canestro della disciplina")

Tre fogli tratti da un manoscritto del Vinayapiṭaka su foglia di palma redatto in Myanmar nel 1856. Palazzo Madama di Torino in: https://en.wikipedia.org/wiki/Vinaya_Pi%E1%B9%ADaka#/media/File:Manuscript_of_Vinaya_Pitaka.jpg

Tutti i buddhisti che scelgono di intraprendere la vita monastica sono chiamati a rispettare delle regole che furono pensate e trasmesse dal Buddha Śākyamuni per garantire l'unità e la stabilità della comunità monastica, grazie alle quali avrebbe dovuto persistere in eterno.

Spiegando il formulario di confessione chiamato pāṭimokkha, recitato originariamente in occasione dell'assemblea dei monaci che si teneva due volte al mese, il Vinayapiṭaka aiutava a comprendere meglio gli effetti delle proprie azioni e a prenderne coscienza.

Il "Canestro della disciplina" è suddiviso in tre sezioni:

  • Suttavibhaṅgha ("La spiegazione dei testi") cerca di spiegare tutte le frasi del pāṭimokkha, contestualizzando quando e in quale circostanza il Buddha avrebbe stabilito la relativa sanzione. L'opera si presenta divisa in due parti: il Mahāvibhaṅgha ("Grande suddivisione"), rivolto ai monaci, si compone di un elenco delle duecento trasgressioni condannate dal Buddha e le rispettive punizioni, e di un'appendice intitolata Bhikkhpāṭimokkha che elenca le trasgressioni di cui un monaco si deve autoaccusare in occasione della lettura del testo; e il Bhikkhunīvibhaṅgha, che presenta la medesima struttura della sezione precedente ma si rivolge esclusivamente alle monache.
  • Khandhaka ("Ripartizioni") disciplina la vita quotidiana del monaco e si divide in due sezioni: Mahāvagga ("Grande sezione"), che fa memoria della nascita del Saṅgha ed elenca dieci gruppi di norme che hanno a che vedere con l'ingresso nella comunità, le adunanze comunitarie, i riti, gli oggetti e gli abiti monastici, le modalità per placare una disputa e evitare uno scisma; e Cullavagga ("Piccola sezione"), i cui dodici capitoli si interessano soprattutto delle norme igieniche che monaci e monache devono rispettare.
  • Parivāra ("Il corteo"), opera che non si limita ad elencare delle regole, ma le spiega anche attraverso storie o leggende che le rendono più facilmente comprensibili.

Il Suttapiṭaka ("Canestro dei discorsi")

Composto da numerose opere, il Suttapiṭaka è il "canestro più antico", una raccolta di discorsi di carattere dottrinale attribuiti al Buddha storico o ad alcuni dei suoi discepoli. Gli insegnamenti possono essere trasmessi in forma dialogica o tramite prediche redatte in prosa e inframmezzate da versi. Le continue ripetizioni concettuali, finalizzate all'apprendimento mnemonico, e i lunghi elenchi sono caratteristiche tipiche di questa parte del canone, così come l'utilizzo di formule stereotipate. I discorsi presentano una struttura fissa, cominciando con una descrizione del luogo e della situazione che diventa occasione di insegnamento, proseguendo con la presentazione della persona che si reca a far visita o che incontra casualmente il Buddha, il discorso dell'Illuminato e la conseguente conversione del suo interlocutore.

Il testo si suddivide in cinque raggruppamenti (Nikāya) di varia lunghezza, che includono a loro volta diverse serie di scritti. Distinguiamo tra:

  • Dīghanikāya ("Raggruppamento dei testi lunghi") si compone di trentaquattro sūtra piuttosto lunghi, indipendenti l'uno dall'altro e racchiusi in tre diverse sezioni: Sīlakkhandhavagga (perché tutti i sūtra sono legati alla virtù, sīla); Mahāvagga (perché tutti i sūtra iniziano con la parola mahā) e Pāṭikvagga (dal titolo del primo sūtra).
  • Majjhimanikāya ("Raggruppamento dei testi medi") è una miscellanea di centotrentadue discorsi e narrazioni divisi in tre raccolte (Mūlapaṇṇasa o "Insegnamenti radicali", Majjhimapaṇṇasa o "Insegnamenti mediani" e Uparipaṇṇasa o "Insegnamenti superiori"), indipendenti l'uno dall'altro e scritti in epoche diverse, che affrontano una certa varietà di temi (es. la dottrina, la vita monastica e la pratica ascetica).
  • Saṃyuttanikāya ("Raggruppamento dei testi coordinati") si presenta come una raccolta di 2889 sūtra distribuiti in cinquantasei raccolte e raggruppati secondo criteri eterogenei, che possono basarsi sull'argomento trattato, sul tipo di interlocutori coinvolti, sulla situazione che ha generato il discorso e così via.
  • Aṅguttatanikāya ("Raggruppamento dei testi che progrediscono per uno") è composto da 2300 sūtra raccolti in undici sezioni (Nipāta).
  • Khuddakanikāya ("Raggruppamento dei testi piccoli") è una raccolta di quindici brevi opere che, pur essendo stata redatta per ultima, contiene passi molto antichi e testi poetici di un certo pregio letterario e rilievo dottrinale (es. Dhammapada, Udāna, Itivuttaka e Suttanipāta).

L'Abhidhammapiṭaka ("Canestro della dottrina")

Risalente ai primi secoli dell'era volgare, l'Abhidhammapiṭaka è il "canestro" più recente del canone (V sec. d.C.). Composto da sette opere dogmatiche i cui contenuti si rifanno a quelli presenti nel Suttapiṭaka, cerca di sistematizzare i principali concetti della dottrina buddhista.

I testi che compongono questa raccolta sono:

  • Dhammasaṅgaṇi ("Classificazione delle cose") è un'opera divisa in cinque sezioni che, elencando gli elementi che costituiscono il pensiero e le rappresentazioni che l'uomo si fa, cerca di aiutare il praticante a comprenderne la complessità e ad intuire la necessità di un distacco per aprirsi al nirvāṇa.
  • Vibhaṅga ("Divisioni") riprende le classificazioni proposte nel testo precedente e analizza nei suoi diciotto capitoli gli elementi che condizionano la percezione della realtà (es. gli aggregati, le basi dei sensi, gli elementi, la verità, le facoltà, e così via).
  • Kathāvatthu ("Che ha per oggetto le questioni") è un testo composto di ventitré sezioni, rilevante dal punto di vista storico e dottrinale perché rende note 250 tesi eretiche e le loro rispettive confutazioni da parte dell'ortodossia buddhista. All'interno dell'opera è possibile rilevare la presenza di interpolazioni posteriori alla redazione originaria, generalmente connesse alle eresie con cui, di volta in volta, era necessario confrontarsi.
  • Puggalapaññatti ("Descrizione delle personalità") offre una classificazione delle diverse tipologie di essere umano, riconoscibili in virtù delle azioni morali compiute.
  • Dhātukathā ("Discorso sugli elementi") si compone di quattordici capitoli che approfondiscono le relazioni che intercorrono tra i fenomeni psichici attraverso domande e risposte.
  • Yamaka ("Le coppie") è un'opera complessa e difficile che, nelle dieci sezioni che la compongono, offre ad ogni interrogativo due possibili risposte, volte a dissipare i dubbi che possono sorgere dopo lo studio e la lettura dei primi cinque libri dell'Abhidhammapiṭaka.
  • Paṭṭhānapakaraṇa ("Libro delle relazioni causali") è composto di ventiquattro capitoli che affrontano le altrettante tipologie di relazione causale che intercorrono tra i fenomeni.

Il Canone cinese

Copia del Sūtra del Loto, attribuita al principe giapponese Shōtoku Taishi (possesso della famiglia imperiale giapponese) in: https://it.wikipedia.org/wiki/Canone_buddhista_cinese#/media/File:Lotus_Sutra_written_by_Prince_Sh%C5%8Dtoku.jpg

Il buddhismo approdò in Cina tra il I e il IV sec. d.C., in seguito all'opera divulgatrice dei primi monaci indiani di lingua sanscrita. L'attività di traduzione dei testi canonici che essi avevano portato con sé, ebbe inizio nel II sec. d.C. ma, sin da subito, ci si scontrò con ovvie difficoltà linguistiche: come i maestri indiani parlavano poco e male la lingua cinese, allo stesso modo erano pochi i cinesi che conoscevano la lingua sanscrita. Il pericolo era di commettere errori grammaticali e lessicali che potevano provocare fraintendimenti dottrinali. Nel corso dei secoli vennero sviluppate nuove tecniche di traduzione, anche grazie all'interesse dimostrato dalla corte (400) e allo sviluppo di un "cinese buddhista ibrido" standardizzato. Lo sviluppo di tecniche di traduzione sempre più accurate si deve al contributo di monaci e pellegrini che avevano approfondito lo studio della lingua sanscrita (VII sec.) ma che, ricorrendo ad un cinese troppo elevato, non riuscirono ad avere molto successo tra la gente comune. Nella maggior parte dei casi, si optò per conservare tre o più versioni di un singolo testo indiano, realizzate in periodi diversi e sulla base di tecniche di traduzione altrettanto differenti tra loro. La prima edizione a stampa in lingua cinese del canone fu realizzata, su richiesta del primo imperatore della dinastia Song (972 d.C.).

Noto anche con il nome Dàzàngjīng ("Grande deposito delle scritture"), il canone cinese è stato accolto soprattutto dalle tante scuole del Mahāyāna, divenendo un punto di riferimento anche per il buddhismo coreano, vietnamita e giapponese. Si tratta di un corpus testuale che si pone in linea di continuità con il Tipiṭaka, a cui vengono aggiunte nuove produzioni letterarie che rendono manifesta la nuova sensibilità del "Grande Veicolo". Oltre alle traduzioni (due terzi del canone) dei testi sanscriti, dunque, troviamo al suo interno diversi sūtra, commentari, trattati delle singole scuole, opere polemiche, racconti di pellegrinaggio, biografie, bibliografie e dizionari di termini buddhisti. Di particolare interesse per la comprensione degli insegnamenti del "Grande Veicolo", è la letteratura Prajñāpāramitā, una raccolta di opere che si compone di sūtra di varia estensione pervenutici per lo più in cinese e in tibetano, solo qualche raro caso in lingua sanscrita.

Alcuni studiosi, rilevando la mancanza di un riconoscimento ufficiale che stabilisca in maniera definitiva la composizione del canone, fanno notare l'inadeguatezza dell'espressione "canone buddhista cinese", considerandolo, piuttosto, un deposito testuale aperto e in continuo sviluppo.

Il Canone tibetano

Nel VII sec., il buddhismo indiano subisce un processo di induizzazione che darà vita al "Veicolo Adamantino". Gli elementi magici o tantrici che vengono assorbiti e posti in relazione all'insegnamento del Buddha trovano spazio anche in una letteratura ricca e variegata, attenta alla trasmissione degli insegnamenti religiosi, delle indicazioni rituali, delle credenze magiche, degli inni di lode e delle speculazioni filosofiche.

Quando il Vajrayāna mette radici in Tibet, si assiste alla formazione di un nuovo canone in lingua tibetana, che si compone di due raccolte (bKa' 'gyur e bsTan 'gyur) che custodiscono gli insegnamenti del Buddha Śākyamuni, la letteratura esegetica e quella sussidiaria. Gli oltre trecento volumi che costituiscono il canone tibetano includono più di quattromila opere, principalmente traduzioni dal sanscrito e dalle altre lingue locali dell'India, ma anche produzioni originali di autori tibetani.

bKa' 'gyur e bsTan 'gyur sono stati redatti per la prima volta nel XIV secolo, in seguito ad una selezione di testi che riflette lo sviluppo di diverse tecniche di traduzione e la necessità di un riferimento all'originale indiano, soprattutto per quanto riguarda i tantra. Il bKa' 'gyur, che si compone di un numero variabile di volumi (da 104 a 108, a seconda della raccolta), è caratterizzato da una struttura molto simile a quella del canone Tipiṭaka, a cui aggiunge nuove sezioni. Le sei parti che lo compongono sono: 'dul ba (la regola monastica), sher phyin (i sūtra), phal chen (una nuova serie di sūtra), dkon brtsegs (altri sūtra afferenti al Mahāyāna), mdo sde (i sūtra riconosciuti dal Theravāda) e rgyud sde (una serie di tantra). Più numerosi risultano essere i volumi che costituiscono il bsTan 'gyur (218 o 225) che, nelle sue tre sezioni, accoglie opere di carattere ermeneutico ed esegetico, ma anche testi complementari che possono riguardare la grammatica, la metrica, l'iconografia, l'astrologia, la medicina e così via.

I tre tesori del buddhismo

Con il termine Triratna ("Tre Tesori", "Tre Gioielli", "Triplice Gemma" o "Triplice Rifugio"), si indicano le principali guide spirituali del buddhismo: il Buddha, inteso come la persona del Buddha storico ma anche la sua natura; il Dharma, ossia l'insegnamento del Buddha e il Saṃgha, che è la comunità di quanti praticano il buddhismo.

Il Buddha

Siddhārtha Gautama (VI-V sec. a.C.), colui che sarebbe diventato il Buddha (l'Illuminato), fu un uomo discendente da stirpe regale che, dopo essersi scontrato con le realtà della malattia, della vecchiaia e della morte, cominciò ad interrogarsi sul perché gli esseri senzienti dovessero soffrire.

Tormentato da tale quesito, il principe Siddhārtha giunse alla conclusione che la via del piacere conosciuta sino ad allora non era in grado di offrirgli le risposte che cercava, per cui scelse di lasciare il palazzo e di intraprendere una vita ascetica. L'iniziale ricerca sotto la guida di due maestri dello yoga non portò ai risultati sperati, per cui il futuro Illuminato optò per una via fatta di privazioni estreme che si rivelarono altrettanto controproducenti perché, oltre a non placare la sofferenza e l'instabilità della sua mente, lo portarono a mettere in pericolo la sua stessa vita. Comprendendo la necessità di adottare uno stile di vita più equilibrato, Siddhārtha cominciò a seguire la cosiddetta "via di mezzo". Seduto in meditazione ai piedi di un albero di pipal (o Ficus religiosa, noto anche come "albero della bodhi"), dopo aver vinto le tentazioni che il dio malvagio Mārā mise in atto per farlo desistere dai suoi propositi ed ostacolare la sua crescita spirituale, riuscirà finalmente a realizzare l'Illuminazione.

Avendo placato il turbinio della sua mente, avendo finalmente compreso l'origine del dolore e il sentiero che conduce alla sua cessazione, prese la compassionevole decisione di condividere le sue intuizioni con tutti gli esseri senzienti che avrebbero voluto ascoltarle e metterle in pratica. Dopo aver cercato invano i suoi primi maestri, si diresse a Sārnāth e qui, nel Parco delle Gazzelle, tenne il suo primo sermone, mettendo in moto la ruota del Dharma. Iniziò, così, un lungo periodo di predicazione, durante il quale visitò diverse località dell'India ed incontrò persone appartenenti a caste e generi differenti. La trasmissione del suo insegnamento, spesso espresso sotto forma di parabola per offrire una possibilità di comprensione anche alle persone più semplici, fu accompagnata da gesti, sguardi e silenzi. Molte persone riconobbero in lui un maestro degno di nota, a cui si rivolgevano ricorrendo a titoli onorifici come Śākyamuni («il saggio degli Śākya», la stirpe da cui proveniva), Tathāgata («il Perfetto»), Mahāpuruṣa («di grandezza cosmica»), Cakravartin («il sovrano universale») e Bhagavān («il Signore Benevolente»). Altre, invece, provarono odio ed ostilità nei suoi confronti, tanto che più volte rischiò di essere ucciso.

Sentendo che l'ora della sua morte era vicina, non rinunciò all'ultimo viaggio in compagnia del fedele discepolo Ānanda. Recatosi a Kusinārā, l'Illuminato si fece preparare un giaciglio e, distesosi, trascorse i suoi ultimi giorni dissipando i dubbi dei suoi discepoli e consegnando le ultime indicazioni su come dare continuità al saṅgha (la comunità dei monaci). Il Mahāparinibbānasuttanta («Il grande discorso del nibbāna definitivo»), ci offre una testimonianza delle sue ultime parole:

«Ora, monaci, io vi dico: tutti i dhamma condizionati sono destinati a decadere. Continuate ad esercitarvi, instancabilmente» (Mahāparinibbānasuttanta, in R. GNOLI (a cura), La rivelazione del Buddha, vol. I, 1182).

Dopodiché entrò nel nirvāṇa definitivo. Dopo essere stato cremato, i suoi resti vennero spartiti tra gli otto nobili che li reclamarono ma, circa due secoli dopo, il re Aśoka volle che venissero spartiti tra gli ottantaquattromila tumuli (stūpa) edificati in tutto il territorio indiano.

Il Dharma

Con la parola dharma, le tradizioni buddhiste tendono a riferirsi all'«insegnamento» ("il Dharma") del Buddha, il cui nucleo originario è costituito dalle Quattro Nobili Verità enunciate nel Parco delle Gazzelle di Sārnāth, la dottrina del pratītyasamutpāda, il concetto di anattā e così via. I testi, però, sono soliti utilizzare questo vocabolo anche al plurale ("i dharma"), indicando così tutti gli elementi materiali e mentali che costituiscono la realtà, nel loro essere istantanei, causati e causanti, condizionati e condizionanti, indipendenti da qualsiasi forma di sostrato (che si tratti di un sé o di un individuo), impermanenti e fonte di dolore.

Di fronte alla domanda sull'origine del dolore e della sofferenza, il Buddha si fa interprete e mediatore di una verità a cui giunge attraverso un percorso di ricerca che coincide con un'esperienza di vita. Dopo aver provato diverse tecniche meditative che si sono rivelate insoddisfacenti e aver compreso la necessità di affrontare la questione in un modo diverso, troverà risposta al problema attraverso la "via di mezzo", uno stile di vita più equilibrato che gli permette di affrontare il tema del dolore (dukkha) in modo più razionale. L'analisi che propone nelle Quattro Nobili Verità rispecchia il metodo d'indagine in uso nella tradizionale medicina indiana: diagnosi, eziologia, prognosi e cura. Il male, il dolore e la sofferenza esistono (la Nobile Verità del Dolore), è un dato di fatto, ma queste realtà hanno un'origine (la Nobile Verità dell'Origine del Dolore) che può essere scoperta ed annientata (la Nobile Verità della Cessazione del Dolore) attraverso un percorso che presenta otto tappe (il Nobile Ottuplice Sentiero). Condividendo questo insegnamento, l'Illuminato si propone di rendere accessibile la liberazione dal ciclo saṃsārico a tutti gli esseri senzienti.

Le Quattro Nobili Verità

Presso il Parco delle Gazzelle di Sarnāth, il Buddha mise in moto la ruota del Dharma enunciando le Quattro Nobili Verità, che costituiscono il nucleo originario dell'insegnamento buddhista e che esplorano il modo più adeguato per superare il dolore e la sofferenza che imbriglia tutti gli esseri senzienti. Le Quattro Nobili Verità consistono nella Nobile Verità del Dolore, la Nobile Verità dell'Origine del Dolore, la Nobile Verità della Cessazione del Dolore e il Nobile Ottuplice Sentiero.

La Nobile Verità del Dolore

Questa, o monaci, è la nobile verità del dolore (dukkha): la nascita è dolore, la vecchiezza è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore, l'unione con ciò che è discaro è dolore, la separazione da ciò che è caro è dolore, il non ottenere ciò che si desidera è dolore. In breve, i cinque aggregati (khandha) che rappresentano la base dell'attaccamento all'esistenza, sono dolore (Dhammacakkapavattanasutta, in R. GNOLI (a cura), La rivelazione del Buddha, vol. I, 7-8).

In questo passo del Dhammacakkapavattanasutta («Il discorso della messa in moto della ruota del Dhamma»), il Buddha si limita a constatare che tutti gli esseri senzienti fanno esperienza di varie forme di sofferenza (dukkha): si soffre nel corpo, nella mente e nello spirito. Tutto ciò che risulta spiacevole e imperfetto, che genera frustrazione ed insoddisfazione, è dukkha.

Ma dukkha sono anche i cinque aggregati (khandha o skhandha), ossia i cinque elementi che costituiscono la dimensione psicofisica di tutti gli esseri: rūpa (la forma o la corporeità, che si compone degli elementi terra, acqua, fuoco e vento); vedanā (le sensazioni che si producono dal contatto tra i sei organi di senso -occhi, orecchi, naso, lingua, corpo e mente- con gli oggetti esterni corrispondenti -immagine, suono, odore, gusto, tatto e immagini mentali-, provocando reazioni che possono essere piacevoli, spiacevoli o neutre); saññā (san. saṃjñā, ossia le percezioni che nascono dalla consapevolezza delle sensazioni prodotte dagli oggetti esterni); saṃskāra (le propensioni, o formazioni mentali che comprendono la volontà e i coefficienti karmici legati alle esistenze precedenti) e viññāṇa (san. Vijñāna, ossia la coscienza discriminante, che si esprime nella consapevolezza dell'unità tra i sei oggetti esterni e rappresenta l'insieme dei processi della ragione). Essi sono dukkha perché impermanenti e soggetti alle leggi del divenire.

A differenza della tradizione brāhmanica, che riconosceva l'esistenza di un ātman («Sé») inteso come «soggetto fondamento dell'identità psicofisica uno con l'Assoluto metafisico, il Brahman», il Buddha introduce il concetto di anattā («non Sé»), evidenziando come l'Io non sia una realtà sostanziale, autosufficiente e indipendente. Chi crede che la realtà, incluso il «Sé», sia permanente e immutabile è succube di un'illusione (māyā) e si autocondanna alla sofferenza. La realtà è che «Io» è solo un nome che indica l'insieme di tutti gli aggregati che, nella loro instabilità, rendono impermanente ogni cosa e ogni essere. Per liberarsi dal dolore bisogna imparare a non assolutizzare il proprio Io e a riconoscerne la natura impermanente, limitata e inconsistente.

Anityā, letteralmente "impermanenza", corrisponde a quella caratteristica dell'esistenza da cui dipendono la sofferenza e il non-sé. Senza l'impermanenza, la vita e la possibilità di realizzare la liberazione non sarebbero possibili (cfr. Anityā, in SCHWIBACH A. (a cura), Dizionario della sapienza orientale. Buddhismo, Induismo, Taoismo, Zen. Filosofia, Religione, Psicologia, Cultura, Misticismo, Letteratura dell'Oriente, Ed. Mediterranee, Roma 1991, 28).

La Nobile Verità dell'Origine del Dolore

Questa, o monaci, è la nobile verità dell'origine del dolore (dukkhasamudaya): l'origine del dolore s'identifica con la brama (taṇhā), la quale conduce a nuove esistenze, è congiunta col diletto e con la concupiscenza, e trova appagamento ora qua ora là. Esiste la brama per il godimento degli oggetti dei sensi, la brama per l'esistenza e la brama per la non-esistenza (Dhammacakkapavattanasutta, in R. GNOLI (a cura), La rivelazione del Buddha, vol. I, 8)

Interrogandosi sull'origine di dukkha, il Buddha arriva alla conclusione che essa si identifichi con taṇhā, una sete avida identificabile con la brama di appropriarsi dell'oggetto desiderato (upādāna), qualunque esso sia. Aggrapparsi a questo desiderio significa mettere in atto una serie di comportamenti, anche scorretti, che producono particolari effetti karmici ed influenzano le future rinascite. Ma da dove ha origine questa brama? Questa Nobile Verità si lega alla dottrina del paṭiccasamuppāda (san. pratītyasamutpāda, tradotto anche con «coproduzione condizionata» o «co-originazione dipendente»), un elenco di dodici cause concatenate (nidāna) che illustrano come i khandha interagiscano dinamicamente tra loro.

L'oggetto del desiderio non si identifica solo con il soddisfacimento del piacere dei sensi, ma anche con l'atto di procurare al proprio Io una qualche forma di protezione o vantaggio (inclusa la vita eterna dopo la morte) e con la tendenza di sfuggire alle situazioni, alle cose o alle persone che procurano disagio e dispiacere (cfr. P. HARVEY, An introduction to Buddhism, 53).

La dottrina del pratītyasamutpāda

Bhavacakra o Ruota del divenire, che rappresenta i principi della dottrina della coporoduzione condizionata in:https://en.wikipedia.org/wiki/Bhavacakra#/media/File:Bhavachakra.jpg

La dottrina del pratītyasamutpāda, nota anche come paṭiccasamuppāda, o "coproduzione condizionata", o "co-originazione dipendente", si lega strettamente alla seconda Nobile Verità, proponendo un elenco di dodici cause concatenate (nidāna) che illustrano l'interazione dinamica tra i khandha (o skhandha) che compongono la realtà. Il seguente passo tratto dal Mahātaṇhāsaṅkhayasutta («Il grande discorso della distruzione della brama») guida il lettore alla comprensione dell'origine del dolore:

Dunque, o monaci, i coefficienti sono condizionati dalla nescienza, la coscienza è condizionata dai coefficienti, "nome e forma" sono condizionati dalla coscienza, i sei domini sono condizionati da "nome e forma", il contatto è condizionato dai sei domini, la sensazione è condizionata dal contatto, la brama è condizionata dalla sensazione, l'appropriazione (upādāna) è condizionata dalla brama, il divenire (bhava) è condizionato dall'appropriazione, la nascita (jāti) è condizionata dal divenire, vecchiezza e morte (jarāmaraṇa), pena, lamento, disagio, angoscia e mancanza di serenità sorgono condizionati dalla nascita. E così si ha la nascita di tutto questo aggregato di dolore (Mahātaṇhāsaṅkhayasutta, in R. GNOLI (a cura), La rivelazione del Buddha, vol. I, 30-31).

Andando a ritroso, si deduce che alla base della sofferenza ci sono la brama e l'ignoranza (avidyā), una nescienza che si configura come un velo che impedisce al soggetto di vedere i fenomeni per ciò che sono (transitori e fonte di illusione) e di accogliere l'insegnamento del Buddha, condannandolo all'infelicità. Avidyā induce il soggetto ad agire, pensare e pronunciare parole che producono i coefficienti karmici (saṃskāra) che influiscono sulle condizioni di esistenza.

I coefficienti karmici, a loro volta, condizionano la "coscienza" (viññāṇa), ossia la consapevolezza che si ha di un oggetto in virtù delle sensazioni collegate alle sei basi dei sensi (ossia gli organi di senso e la mente), e quell'elemento responsabile della riorganizzazione dei cinque aggregati nella nuova nascita dopo la morte.

La coscienza condiziona "nome e forma" (nāmarūpa), ossia il complesso psicofisico, e quest'ultimo è condizionato dai «sei domini» (o dalle "sei basi dei sensi" -ṣaḍāyatana-), che corrispondono agli occhi, alle orecchie, al naso, alla lingua, al corpo e alla mente (intesa come organo sensibile agli oggetti mentali come l'immaginazione, la memoria, il pensiero, ecc.). Solo in presenza dei sensi e della mente ci può essere quel contatto (sparśa) generato dal convergere della base sensoriale, del rispettivo oggetto e della consapevolezza che ne deriva. Quando i sensi vengono stimolati, attraverso il contatto, sorgono le sensazioni (vedanā) e, in virtù di esse, può sorgere anche la brama (taṇhā), la sete di prolungare all'infinito i piaceri e i godimenti fisici, e allontanare ciò che risulta spiacevole. La brama produce attaccamento (upādāna), volontà di appropriarsi dell'oggetto desiderato, affermando così il proprio Io, che è illusione. Coltivando l'attaccamento, il soggetto si lega a quella visione illusoria che lo condanna al ciclo continuo di morte e rinascita (saṃsāra). La nascita, che ha inizio con il concepimento, quando gli aggregati si combinano sulla base dei meriti o dei demeriti che si sono prodotti in virtù alla legge del karman, è causata dall'attaccamento ma è anche causa di quel cammino inesorabile che porta alla vecchiaia e alla morte, durante il quale il soggetto è costretto ad interfacciarsi con la sofferenza.

I testi ci informano in merito all'esistenza di quattro tipologie di attaccamento: quello sensuale, quello alle false opinioni, quello ai riti e alle regole vane, e quello alla convinzione che esista un principio eterno della personalità (cfr. M. D'ONZA CHIODO, Buddhismo, Queriniana, Brescia 2000, 47).

Ogni elemento della realtà appare condizionato e condizionante. I fenomeni non sono prodotto del caso, di strane coincidenze, o del volere di un essere di natura divina, ma il risultato di una legge impersonale di fronte alla quale i comuni esseri senzienti sembrano impotenti. Solo intraprendendo il percorso che conduce alla vittoria sull'ignoranza e sulla brama, che legano alle realtà di questo mondo effimero, si avrà la possibilità di vincere definitivamente dukkha (il dolore nelle sue molteplici forme) attraverso il distacco.

La Nobile Verità della Cessazione del Dolore

Dopo aver constatato l'immersione di ogni essere senziente in un oceano di dolore e aver individuato le cause che lo producono, il Buddha consegna ai suoi discepoli una bella notizia: la sofferenza può essere vinta. Nel Dhammacakkapavattanasutta è scritto:

«Questa, o monaci, è la nobile verità della cessazione del dolore (dukkhanirodha): la cessazione del dolore è l'estinzione, il completo svanimento, l'abbandono, il rifiuto di questa brama, la liberazione e il distacco da essa»

Vincendo l'ignoranza e la brama, ci si libera del loro effetto e si può finalmente accedere ad una nuova visione della realtà chiamata nirvāṇa ("estinzione"), che consiste nel togliere il velo sulla realtà, comprendendone la transitorietà e l'illusorietà.

Il Nobile Ottuplice Sentiero

Per arrestare il flusso del dolore, il Buddha suggerisce un sentiero diviso in otto tappe che trova enunciazione nella Quarta Nobile Verità, nota come "Il Nobile Ottuplice Sentiero". Il Dhammacakkapavattanasutta afferma:

Questa, o monaci, è la Nobile verità del sentiero che conduce alla cessazione del dolore (dukkhanirodhagāminī paṭipadā): esso è il Nobile ottuplice sentiero, ovvero retta visione, retta intenzione, retta parola, retta azione, retto modo di vivere, retto sforzo, retta presenza mentale e retta concentrazione.

Per favorire la comprensione degli otto gradini indicati dal sūtra appena citato, si ricorre ad una schematizzazione che divide le singole tappe in tre macroaree:

  1. conoscenza (prajña, include "retta visione" -talvolta tradotta come "retta fede"- e "retta intenzione"):
  2. condotta morale (sīla, comprende "retta parola", "retta azione" e "retto modo di vivere");
  3. pratica meditativa (samādhi, include "retto sforzo", "retta presenza mentale" e "retta concentrazione").

Con "retta visione" (sammādiṭṭhi) si intende «la conoscenza del dolore, la conoscenza dell'origine del dolore, la conoscenza della cessazione del dolore, la conoscenza della via che porta alla cessazione del dolore», ossia la conoscenza e l'accettazione delle Quattro Nobili Verità.

Il secondo gradino dell'Ottuplice sentiero corrisponde alla retta intenzione (sammāsaṃkappa), ossia «il proposito di lasciar andare (nekkhamma), quello di non odiare e di non nuocere», la ferma decisione di perseguire la via del distacco, che conduce al nirvāṇa, ed essere benevolenti nei confronti di tutti gli esseri.

Il momento morale della Quarta Nobile Verità si articola in retta parola (sammāvācā), ossia l'invito ad «astenersi dalla menzogna, dalla denigrazione, dall'offesa e dal vaniloquio» perché le cattive parole legano alla vita; retta azione (sammākammanta), ossia l'astensione «dal togliere la vita ad esseri viventi, dal prendere il non dato, dal comportamento scorretto nella sfera dell'amore»; e retto stile di vita (sammā-ājīva), che richiede di sostenersi attraverso retti mezzi di sussistenza, impegnandosi in attività che non comportino l'uccisione di altri esseri viventi (es. soldato, macellaio, cacciatore), l'inganno, il profitto e l'accumulo a scapito di altri, l'azione criminale, e così via. Prototipo ideale del retto stile di vita è la vita monastica, in quanto basata sulla rinuncia.

L'Ottuplice Sentiero si conclude con una fase meditativa che prevede: il retto sforzo (sammāvāyāma), un impegno che coinvolge la mente e la prepara allo sviluppo di una retta presenza mentale (sammāsati), ossia una contemplazione consapevole del corpo in quanto aspetto materiale dell'esistenza, delle sensazioni e delle emozioni, dell'attività della mente e dei contenuti della mente. L'ultima tappa del sentiero corrisponde alla retta concentrazione (sammāsamādhi), che si identifica con la meditazione suddivisa in quattro gradi (jhāna) di diversa intensità: il distacco da ogni forma di attaccamento, illusione e avversione; il distacco da ogni forma di analisi e riflessione che distolgono l'attenzione dalla meta; il distacco dalla gioia e, infine, la rinuncia alla fluttuazione tra piacere e sofferenza. Ad essi, si aggiungono quattro stati immateriali che consentono lo svuotamento della mente attraverso la concentrazione sull'infinità dello spazio e della coscienza, sul nulla e su ciò che non è né percezione né non percezione.

Il Saṃgha

Monaci Theravada-Thailandia - FOTO DI SARA NOVENTA

Durante il primo periodo di predicazione del Buddha la comunità buddhista (il Saṃgha) era composta solo da uomini che sceglievano di intraprendere la vita monastica. La nascita dell'ordine monastico femminile è di poco successivo e dovuto sia alle molte insistenze di Mahāprajāpatī Gautamī, la zia che crebbe il piccolo Siddhārtha dopo la morte della madre, sia alla mediazione del discepolo Ānanda, che convinse il Buddha ad ammettere la donna all'interno del Saṃgha. Ai laici e alle laiche era solo concesso di poter compiere atti meritori che potessero incidere positivamente sulla loro futura rinascita. Con l'avvento del Mahāyāna, però, anch'essi cominciarono ad essere riconosciuti come parte della comunità, con i loro riti di ammissione, le loro regole da seguire e pratiche che consentissero di vivere l'esperienza dell'Illuminazione.

Per entrambi gli stati di vita, l'ingresso nella comunità buddhista comporta la decisione di incamminarsi lungo il sentiero indicato dal Buddha e la conseguente dichiarazione pubblica di voler prendere rifugio nei "Tre Tesori" (il Buddha, il Dharma e il Saṃgha).

L'iter iniziatico a cui si sottopongono i monaci, nonostante possibili piccole differenze che variano da scuola a scuola, prevede generalmente due cerimonie: il pabbajjā, che consente di accedere al noviziato, richiede che il candidato abbia almeno otto anni e prevede la consegna della veste e della ciotola, la rasatura di barba e capelli, nonché l'affidamento ad un precettore che funga da guida nella crescita spirituale; mentre la vera e propria cerimonia di ordinazione (upasampadā), che avviene all'età minima di vent'anni (o comunque quando sia trascorso un congruo periodo di tempo ), richiede la presenza di almeno dieci monaci e consente al novizio di diventare effettivamente un membro del saṃgha che, sotto la guida del suo maestro, continuerà gli studi e dovrà attenersi a tutte le regole che disciplinano la condotta monastica, contenute nel Vinayapiṭaka (il "Canestro della Disciplina", la terza parte del canone Tipitaka).

Il laico, invece, è tenuto all'ascolto e alla comprensione degli insegnamenti, alla pratica meditativa, al sostentamento della comunità dei monaci e delle monache, e al rispetto dei primi cinque dei dieci precetti enunciati nel Vinaya. Così, anch'essi potranno accumulare quei meriti che consentono una buona rinascita o il raggiungimento della liberazione definitiva.

La gerarchia monastica si fonda sull'anzianità dell'ordinazione (cfr. M. RAVERI, Buddhismo, in FILORAMO G. ET ALII, Manuale di storia delle religioni, Mondolibri, Milano 2003, 346).

ALCUNI CONCETTI CHIAVE

Anattā (o anatman)

Il concetto di anattā, che entra in profondo contrasto con quello di ātman proposto dallo hindūismo, riveste un ruolo centrale nella speculazione buddhista. Nato come strumento pedagogico per aiutare i praticanti a liberarsi dall'attaccamento che ostacola la realizzazione dell'Illuminazione, divenne lentamente un insegnamento filosofico-dottrinale accolto da diverse scuole.

Per liberarsi dalle catene del saṃsāra attraverso la comprensione delle Quattro Nobili Verità, ogni praticante è chiamato a riconoscere la non esistenza di un sé personale, autonomo, indipendente ed eterno. "Io" è soltanto un nome con cui il linguaggio umano tende a designare l'insieme degli aggregati (khandha o skhandha) che compongono i dharma, ossia i fenomeni dell'esistenza, soggetti alla transitorietà, alla corruttibilità e all'estinzione.

Il Karman

La legge del karman è una legge impersonale di causa ed effetto. Ogni azione trova origine in un'intenzione, che induce a commettere atti moralmente buoni o cattivi comportanti delle conseguenze (o "frutti") che ricadono in particolar modo sul soggetto agente. L'azione commessa è ritenuta lasciare traccia nel soggetto ed influenzare il suo destino. Poiché la maturazione dei frutti karmici può richiedere periodi più o meno lunghi, che generalmente superano la durata di una singola esistenza, anche le ricompense possono dispiegarsi lungo un alternarsi di rinascite che costituiscono il saṃsāra.

L'intenzione ricopre un ruolo determinante nell'identificazione degli effetti prodotti dall'azione, che questa sia effettivamente messa in atto oppure no. Che si tratti di azioni buone o cattive, tutte producono effetti karmici e rinascite. Per uscire da questo schema, diventa necessario astenersi da entrambe, cercando di liberarsi dal dominio della brama, dell'odio e dell'ignoranza per agire con distacco.

Il Saṃsāra

Bhavacakra o Ruota del divenire, che rappresenta i principi della dottrina della coporoduzione condizionata. File apparentemente di pubblico dominio in: https://en.wikipedia.org/wiki/Bhavacakra#/media/File:Bhavachakra.jpg

Il buddhismo ritiene che gli effetti karmici debbano essere estinti in un susseguirsi di esistenze nei diversi mondi (gati), attraverso la liberazione dall'illusione e dall'attaccamento, e la conseguente esperienza del nirvāṇa. Gli esseri sono imprigionati nella "ruota delle esistenze" (saṃsāra) a causa di tre radici nocive (dveśa, avversione; triśnā, brama o sete; e avidyā, illusione o nescienza), ma la forma che assumeranno nella nuova esistenza è determinata dalla legge impersonale del karman.

Il Mahāyāna ricorre al termine "saṃsāra" per indicare il mondo fenomenico, che in realtà è identità di saṃsāra e nirvāṇa. Distinguere questi due termini significa essere ancora soggetti ad una visione dualistica della realtà e, quindi, all'illusione. Saṃsāra e nirvāṇa, come il "sé", sono solo nomi privi di sostanza e, pertanto, vuoti (śūnyatā).

Il Nirvāṇa

La via del Buddha tende alla realizzazione del nirvāṇa, possibilità concessa solo agli esseri che sono rinati nella condizione di esseri umani. Non si tratta di una sorta di "paradiso" raggiungibile dopo la morte del corpo, bensì di uno stato della mente caratterizzato dalla corretta comprensione della reale natura di tutti i fenomeni (i dharma), incondizionato e al di là di qualsiasi definizione, perché la parola «è un prodotto dei bisogni umani in questo mondo».

Si tratta di un'esperienza così particolare, che si tende a parlarne spesso in termini negativi, definendo ciò che essa non è, come testimoniato dal testo Udāna ("Versi ispirati"):

Esiste, o monaci, quello stato in cui non vi è terra, non vi è acqua, non vi è fuoco, non vi è aria, non vi è sfera dell'infinità dello spazio, non vi è sfera dell'infinità della coscienza, non vi è sfera della nullità, non vi è sfera della «né-percezione-né-non-percezione», né questo mondo né un altro mondo né entrambi, né il sole né la luna. Qui, monaci, io dico che non vi è giungere, non vi è andare e non vi è rimanere, non vi è crescita, non vi è decrescita. Esso non è fisso, non è mobile, non ha sostegno. Proprio questa è la fine della sofferenza. [...] Esiste, o monaci, un non-nato, un non-divenuto, un non-creato, un non-formato. Se, o monaci, non esistesse questo non-nato, non-divenuto, non-creato, non-formato non si potrebbe conoscere alcuna via di salvezza da ciò che è nato, divenuto, creato, formato. Ma, o monaci, poiché esiste un non-nato, un non-divenuto, un non-creato, un non-formato si può conoscere una via di salvezza da ciò che è nato, divenuto, creato, formato (Udāna, in R. GNOLI, a cura di, La rivelazione del Buddha, vol. I, 697-698).

"Non-nato", "non-divenuto", "non-creato" e "non-formato" sono sinonimo di nirvāṇa, a volte interpretato come "vacuità" (śūnyatā), ossia assenza di attaccamento e delusione che nasce dalla consapevolezza dell'inesistenza di un Io sostanziale.

Affinché il praticante intraprenda il cammino buddhista, è necessario che sia spinto da un desiderio iniziale che deve essere presto abbandonato affinché non si trasformi in attaccamento. Attraverso il distacco dal desiderio, dai condizionamenti sensoriali e mentali, si potrà lentamente accedere a quel sereno disincanto grazie al quale non ci si reincarna più:

Attraverso il sereno disincanto (nibbidā), egli diviene privo di attaccamento. In virtù del non attaccamento, ottiene la liberazione (vimuccati). Con la liberazione sopravviene la conoscenza "la mente è liberata". Egli comprende che "la nascita è distrutta, la santa vita è stata vissuta, ciò che doveva essere fatto è stato fatto, non c'è più rinascita in questo mondo" (Ādittasutta, in R. GNOLI, a cura di, La rivelazione del Buddha, vol. I, 428).

Bibliografia

Testi:

  • Ādittasutta, in GNOLI R. (a cura), La rivelazione del Buddha, vol. I, Mondadori Editore, Milano 20032, 423-428.
  • Dhammacakkapavattanasutta, in GNOLI R. (a cura), La rivelazione del Buddha, vol. I, Mondadori Editore, Milano 20032, 5-12.
  • Dhammapada, in GNOLI R. (a cura), La rivelazione del Buddha, vol. I, Mondadori Editore, Milano 20032, 501-595.
  • KAMALAŚĪLA, Bhāvanākrama, in GNOLI R. (a cura), La rivelazione del Buddha, vol. II, Mondadori Editore, Milano 20032, 851-925.
  • Mahāparinibbānasuttanta, in GNOLI R. (a cura), La rivelazione del Buddha, vol. I, Mondadori Editore, Milano 20032, 1111-1199.
  • Mahātaṇhāsaṅkhayasutta, in GNOLI R. (a cura), La rivelazione del Buddha, vol. I, Mondadori Editore, Milano 20032, 23-44.
  • Saccavibhaṅgasutta, in GNOLI R. (a cura), La rivelazione del Buddha, vol. I, Mondadori Editore, Milano 20032, 13-22.
  • Udāna, in GNOLI R. (a cura), La rivelazione del Buddha, vol. I, Mondadori Editore, Milano 20032, 597-730.

Studi:

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  • RIGOPOULOS A., Guru. Il fondamento della civiltà dell'India. Con la prima traduzione italiana del "Canto del maestro", Carocci, Roma 2009.
  • ROSSELLA D., Buddhismo al femminile. Therīgāthā. Le poesie spirituali delle monache, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano 2019.
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Dizionari:

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