EBRAISMO

Attualità. "Il tu è più grande". Un'esperienza di ascolto: le "due voci"

"Il tu è più grande"

Un'esperienza di ascolto: le "due voci"

Una riflessione sul recente passato del dialogo ebraico-cristiano che può servire per ragionare sull’attualità del dialogo stesso e sulle sfide che di volta in volta è chiamato ad affrontare. Un cammino che costringe a riscoprire costantemente il senso profondo e illuminante della Dichiarazione Nostra Aetate.

1. “Una parola ha detto Dio, due ne ho udite” (Sl 62,12)

Quello che ci sta davanti, Ebrei e Cristiani, probabilmente, è anzitutto ciò che ci unisce più intimamente, ciò che abita nelle radici vive dell’esistenza. È quella Parola che da millenni risuona nel cuore di Israele e, grazie a Israele, anche nel cuore della comunità cristiana. È proprio questa Parola che, oltre 25 anni fa – dopo un tempo di preparazione, riflessione, confronti, conoscenza reciproca – fu (ri)messa al centro del dialogo ebraico-cristiano nell’iniziativa delle “due voci”, cicli di incontri nati a Milano, ospitati al Centro San Fedele a partire dalla stagione 1999-2000, proprio al cambio di Millennio. L’iniziativa ha trovato poco alla volta i suoi ritmi e le giuste cadenze e ha avuto il sostegno costante e affettuoso di Rav Giuseppe Laras (al tempo rabbino capo della Comunità Ebraica di Milano), Rav Elia Richetti (al tempo vice rabbino capo nella stessa Comunità) e dell’allora Arcivescovo di Milano Card. Carlo Maria Martini. Il centro sulla Parola di Dio e sull’esegesi del testo hanno dato solidità e profondità agli incontri: Giona, Rut, Amos, Giosuè, Giudici, Qoelet sono alcuni dei libri che sono stati letti e commentati insieme dalla voce ebraica e da quella cristiana.

Rav Laras e il Card. Martini (fonte: Fondazione Martini)

Video: Martini, Laras e quell’idea leggendo Saint-Exupéry

“… guardare insieme nella stessa direzione”

“Due voci” si riferisce alla profonda intuizione sapienziale del Salmo 62 che – nella vita intima di Dio – coglie la forza e la grazia, la potenza e l’amore, e ci chiede di accogliere la polifonia della Parola ma anche, in tutto ciò che è possibile, la polifonia dell’ascolto.

Per il Salmo 62 si vedano

  • G. RAVASI, Il libro dei Salmi. Commento e attualizzazione, II, 1983, EDB Bologna, pp. 243-259;
  • P. BEAUCHAMP, I Salmi notte e giorno, 2017, Cittadella, Assisi

“Due voci”, tuttavia, intendeva riferirsi anche al celebre passaggio di Antoine de Saint-Exupery che, nella sua opera, Terra degli uomini ricorda: “Legati ai nostri fratelli da un fine comune e situato fuori di noi, solo allora respiriamo, e l’esperienza ci mostra che amare non significa affatto guardarci l’un l’altro ma guardare insieme nella stessa direzione. Non si è compagni che essendo uniti nella stessa cordata, verso la stessa vetta in cui ci si ritrova...”.

  • A. DE SAINT-EXUPERY, Terra degli uomini, 2019, Rusconi, Milano

“Amare non significa affatto guardarci l’un l’altro ma guardare insieme nella stessa direzione”.

A voler sintetizzare il cammino degli incontri delle “due voci”, questo pensiero forse potrebbe essere allo stesso tempo il progetto, il desiderio e anche l’obiettivo. Alla base sta l’intuizione (sempre nuova) che “voce”, “voci”, chiama l’ascolto, un ascolto accogliente, profondo. Dialogo, dialogare, significa anzitutto riconoscere che siamo chiamati fuori di noi stessi (“un fine comune situato fuori di noi” sottolinea Saint-Exupery): c’è un esodo da compiere – c’è sempre un esodo e un deserto da attraversare per diventare liberi – ed è anzitutto un esodo da noi stessi e da ciò che pensiamo di conoscere o di sapere già dell’altro.

Mettersi in ascolto, quindi. Prima che parlare. In questo caso, però, non si tratta solo semplicemente di un ascolto gli uni degli altri – il “guardarsi negli occhi” (se mai si riesce a sostenere lo sguardo dell’altro) – ma dell’ascolto di quella Parola che, mentre ha così tragicamente diviso Ebrei e Cristiani, rimane, ostinatamente, la risorsa più grande per un dialogo che assuma la voce dell’altro con massima serietà, attenzione, rispetto e amore. Mettere da parte precomprensioni e pregiudizi per dedicarsi all’ascolto e lasciarsi anzitutto, davvero, entrambi interpellare dalla voce dell’Altro, dalla Sua Parola. Stare accanto, appunto, “guardare nella stessa direzione” e lasciarsi guardare da Colui che parla a entrambi.   

Un dialogo da (ri)comprendere

Questo progetto volgeva lo sguardo, naturalmente, ai grandi orizzonti che il Concilio Vaticano II aveva riaperto. Il richiamo della Dichiarazione Nostra Aetate al nutrimento che viene “dalla radice dell’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico che sono i Gentili” e alla consapevolezza che è “tanto grande il patrimonio spirituale comune” illuminava un cammino che la Dichiarazione stessa indicava: “questo Sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima che si ottengono soprattutto dagli studi biblici e teologici e da un fraterno dialogo”. Il cammino delle “due voci” lungo circa 25 anni ci ha davvero costretti a riscoprire continuamente il senso profondo e illuminante di quelle parole di Nostra Aetate. Passaggi importanti – nel recente passato ma, ancor più, se si guarda al futuro – sono venuti proprio dalle difficoltà, dalle incomprensioni e dai momenti di tensione che abbiamo attraversato. Basterebbe ricordare qui il periodo che prese avvio nel febbraio 2008. Il 6 febbraio 2008, proprio durante l’ultimo incontro del ciclo dedicato a “Mosè. Un’esistenza pasquale”, arrivava il comunicato dell’Assemblea Rabbinica Italiana che, reagendo al nuovo testo emanato dalla Santa Sede per la liturgia del Venerdì Santo, relativa alla preghiera per gli Ebrei, coglieva l’adozione di quella formula liturgica “in netta e pericolosa contraddizione con almeno quarant’anni di dialogo ebraico-cattolico, spesso difficile e sofferto”. Una decisione in cui si ravvisava “una sconfitta dei presupposti stessi del Dialogo […] Pertanto – continuava il documento – in relazione alla prosecuzione del dialogo con i Cattolici si impone quantomeno una pausa di riflessione che consenta di comprendere appieno gli effettivi intendimenti della Chiesa Cattolica circa il Dialogo stesso”. Il testo della preghiera per il nuovo rito diceva: “Affinché Dio, Signore nostro, illumini i loro cuori, e riconoscano Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini. Onnipotente eterno Dio, che vuoi che tutti siano salvi e pervengano alla conoscenza della verità, concedi propizio che la moltitudine degli uomini entri nella Tua Chiesa, e che l’intero Israele sia salvo. Per Cristo nostro Signore. Amen”.

Il passaggio più doloroso e irricevibile per l’Assemblea Rabbinica veniva così spiegato: “In relazione al nuovo testo liturgico emanato da Papa Benedetto XVI per la liturgia del Venerdì Santo, all’espressione del vecchio rito (“accecamento degli ebrei”) se ne sostituisce un’altra (“che Dio li illumini”) concettualmente equivalente, per cui risulta che gli ebrei sono comunque “accecati” in tema di verità, seppur il tutto venga espresso in maniera solo apparentemente meno forte. Ciò premesso, il fatto più grave è che viene introdotto, nel medesimo contesto, un invito ai fedeli a pregare affinché gli ebrei finalmente riconoscano “Gesù Cristo Salvatore”.

Fonte unsplash

“non tocca a te compiere l’opera ma non sei libero di sottrartene” (Pirqè Avoth 2,16)

Nell’anno 2008-2009, quindi, d’accordo con l’Ufficio Rabbinico e con Rav Laras (importante punto di riferimento in tutti quegli anni), furono sospesi gli incontri delle “due voci”. C’era, effettivamente, bisogno di una pausa di riflessione. Quel desiderio espresso dalle parole profetiche di Nostra Aetate era più che mai attuale e vivo. Quanto stava accadendo in quei giorni tornava a ricordarci, ce ne fosse stato bisogno, che il dialogo non è mai un dato statico o scontato, né lo si può mai propriamente dire “acquisito”. È sempre da (ri)costruire. In quel contesto e in quel difficile attraversamento fu di aiuto per tutti ritornare con la memoria all’ultimo incontro delle “due voci” 2007-2008, quello del 6 febbraio 2008, quando, commentando il racconto di Dt 34, la morte di Mosè, Paolo De Benedetti ricordava l’opera “incompiuta” di Mosè. Un’opera che, per lui come per ognuno di noi, appare “velata”: velato il punto di partenza e velato il punto d’arrivo. Un’opera a cui qualcuno ha già lavorato e che resta sempre ancora da compiere. Il paradosso di un’opera che, come si legge in Avoth 2,16, “non tocca a te compiere […] ma non sei libero di sottrartene”. Insieme, fu di aiuto e di conforto tenere vivo e ricordare, ancora con Nostra Aetate, il desiderio condiviso nel cammino del tempo: “Con i profeti e con lo stesso Apostolo, la Chiesa attende il giorno, che solo Dio conosce, in cui tutti i popoli acclameranno il Signore con una sola voce e «lo serviranno sotto uno stesso giogo» (Sof 3,9)”. Ci si è rimessi in ascolto della Parola. Insieme, appena possibile. Ascoltare significa ricomprendere: senza l’illusione o la pretesa di saperne di più di ieri ma rinunciando, anzi, consapevolmente, a quello che si pensa di sapere per dedicarsi nuovamente a un ascolto “disarmato”, senza difese. E, ripensandoci, guardare nella stessa direzione sembra proprio venire a sostenere, a rendere possibile e ad alimentare la grande visione di Sofonia: camminare portando lo stesso giogo, appoggiandosi spalla a spalla, imparare a dire “tu”, come ci insegna Martin Buber, anche quando il dialogo è complesso o appare – reciprocamente – troppo difficile: “Ci può essere relazione anche se l’uomo a cui dico tu non lo percepisce nella sua esperienza. Perché il tu è più di quanto l’esso sappia. Il tu fa di più, e gli succede di più di quanto l’esso sappia. Qui non sopravviene alcun inganno: qui è la culla della vita reale” M. BUBER, Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1993, 65.

Rembrandt Harmensz. van Rijn 1606 – 1669, Moses at the Burning Bush (Fonte www.artbible.info/art)

“l’ebreo in lui […] insegnerà ai non ebrei” (E. Wiesel)

Le due voci iniziarono nel 1999-2000: si scelse di leggere insieme il libro di Giona. La scelta di Giona può sembrare strana. È uno dei cosiddetti “profeti minori”: sì, “uno strano personaggio – scrive Elie Wiesel – nella Scrittura non c’è nessuno che gli assomigli. Nessuno ebbe i suoi problemi, o le sue idee per risolverli. È un profeta? Se lo è, perché non c’è nessun riferimento ufficiale a un simile titolo? In ogni caso, un uomo che discute con Dio non per salvare gli uomini ma per punirli, che specie di profeta è? Giona è goffo, prosegue Wiesel, tutt’altro che fortunato. Non si sente desiderato né a casa né altrove. Compare quando meno te lo aspetti. E si rifiuta di andare dove dovrebbe andare” (E. WIESEL, Cinque figure bibliche, Giuntina, Firenze, 1988, 105).

Mentre di altri profeti ricordiamo le parole molto più della loro vita, nel caso di Giona è il contrario. È la sua vita che parla. Ed è proprio seguendola passo passo, nelle contraddizioni, nelle fughe come nelle pieghe sorprendenti del suo svolgersi, che possiamo provare a scoprire, attraverso il cuore confuso e impulsivo del profeta, quello profondo (e sorprendente) del suo Dio.

Il libro di Giona è letto interamente alla sera del giorno solenne di Kippur, prima della preghiera di Neilà, come apice della celebrazione della Teshuvà e del Perdono. Il tema della Teshuvà è centrale nel libro di Giona con le sue implicazioni, le possibilità che apre e le sue sfumature, infinite come il cuore amante di Dio. La difficoltà di Giona a capire e ad accettare la misericordia è la stessa di tutti: il punto interrogativo che conclude il libro lasciandolo aperto, senza finale, dice appunto a ogni persona che ascolta e legge, che deve anche provare a rispondere, rompendo gli indugi, uscendo da ambiguità e indecisioni. Non è possibile fare esperienza piena della misericordia di Dio, stando alla finestra, spettatore distaccato di “come va a finire”.

Un secondo filo conduttore del libro di Giona è il tema dell’universalità, dell’apertura alle nazioni. Giona è l’unico tra i profeti a ricevere l’incarico di annunciare esclusivamente a Ninive. Commenta ancora Wiesel: “Il compito di Yonà è quello di portare la parola di Dio ai non ebrei, senza abbandonare il suo popolo, i suoi ricordi e la sua fede. In altre parole, deve insegnare ai non ebrei senza cessare di essere ebreo. Anzi, è l’ebreo in lui che insegnerà ai non ebrei. Più ebreo è il poeta, e più universale è il suo messaggio. Più ebrea è la sua anima, e più umane sono le sue preoccupazioni. Un ebreo che non ha compassione per i suoi ebrei, che non condivide le loro sofferenze e le loro gioie, non può avere compassione per gli altri. E un ebreo che si preoccupa dei suoi fratelli si preoccupa inevitabilmente anche del destino degli altri” (WIESEL, 1988,122).

Così, dunque, affacciato sul mistero della Teshuvà e su quello dell’apertura alle nazioni, il libro di Giona diventa cifra del cammino a cui è chiamato ogni uomo e ogni donna ed è, probabilmente, anche cifra del futuro del dialogo ebraico-cristiano: la scoperta del volto di Dio, del suo amore e della sua giustizia.

Il cammino delle “due voci” è venuto a insegnarci, ancora una volta, che questo volto lo si trova insieme, che la rivelazione biblica è unitaria e che “il Dio degli ebrei e dei cristiani è lo stesso Dio d’amore che stringe alleanza con gli uomini” ( Tratto da: CONFERENZA EPISCOPALE DI FRANCIA, Decostruire l’antigiudaismo cristiano, 2023 Roma Castelvecchi, 29).

Link di approfondimento:

CREATO DA
Servizio informa…