Il Sikhismo: una religione di pace
L’India del XV secolo, epoca in cui nacque Guru Nanak, era caratterizzata da una situazione politica molto tesa: dinastie islamiche, che regnavano su vasti territori, specialmente nel nord del paese, si contrapponevano a regni induisti. Con il passare del tempo, il potere islamico si accrebbe in tutta l’India: nel sud, l’ultimo grande regno induista, quello di Vijayanagara, fu distrutto da una coalizione di sultanati mentre nel nord, già dal 1526, era fiorente un grande impero musulmano, quello dei Moghul (o Mughal).
Famosi per lo sfarzo della loro corte imperiale e per lo splendore delle loro capitali, i Moghul domineranno l’India per oltre tre secoli, espandendo i loro domini fino a comprendere un territorio molto vasto.
La stabilità politica che seguì la conquista Moghul dell’India e la loro forza unificatrice, tuttavia, non portò pace nel paese. Infatti, quasi tutti gli imperatori di quella dinastia – ad eccezione del sovrano illuminato Akbar (1542 -1605) –, ebbero atteggiamenti più o meno ostili, se non spietati, verso i sudditi induisti. In questo clima di malcontento e scontri fra induisti e musulmani, Guru Nanak fondò una nuova religione, il Sikhismo, che voleva essere, essenzialmente, portatrice di pace. La stessa parola ‘sikh’ (derivata dalla lingua panjabi -sikha-, a sua volta derivata dal sanscrito -śiṣya-), significava semplicemente ‘discepolo’, un termine senza specifiche connotazioni religiose, che poteva essere riferito ad ogni uomo che si ponesse alla ricerca del divino. Infatti, in linea con la sua visione universalistica, volta a bandire ogni divisione e settorialità, specialmente in campo religioso, Guru Nanak aveva più volte affermato: "Non ci sono indù, né musulmani, ma solo esseri umani”.
Pace, dunque, dialogo e comprensione reciproca fra le diverse fedi predicava Guru Nanak. Perché, se è vero che esistono diversi sentieri religiosi, essi non devono essere motivo di contrasto, in quanto, al di là delle divisioni dottrinali, c’è un unico Dio, creatore di tutti gli uomini senza distinzione di etnia, di classe, di sesso. Non a caso, il motto dei Sikh divenne “Siamo figli di un unico Dio!”
(Ek pita ekas ke ham barik).
Un concetto questo, profondamente sentito, che rese i seguaci di Guru Nanak privi di fanatismo, intolleranza e scevri da qualsiasi ostilità verso i devoti di altre fedi. Anzi, nel loro Libro Sacro, il Guru Granth Sahib (o Adi Granth), che i Maestri Sikh andavano componendo, proprio per evidenziare l’unità trascendente di tutti gli uomini e delle diverse fedi, vi furono inseriti anche componimenti di mistici induisti e musulmani.
Fedeli a questo ideale di ‘unità’, i Sikh non cercarono mai di convertire la popolazione, al contrario di quanto avevano fatto i dominatori musulmani.
Nonostante questo, gli imperatori Moghul si insospettirono, forse perché la nuova religione andava radunando un numero sempre maggiore di fedeli. Dopo la morte del tollerante Akbar, l’ostilità dei suoi discendenti raggiuse il culmine: nel 1606, suo figlio Jahāngir decretò la morte del quinto Guru, Arjan, che fu ucciso con l’inganno mentre era trattenuto a corte. Egli è il primo martire della storia Sikh e viene ricordato come “Shaheedan-De-Sartaaj” (Corona dei Martiri).
Con Arjan, anche molti devoti Sikh furono martirizzati per la loro fede.
L’uso delle armi come difesa personale
Poiché i Sikh, in omaggio agli insegnamenti del loro Guru erano pacifici e, dunque, disarmati, subirono ripetuti eccidi da parte dei sovrani Moghul senza potersi difendere. In questa situazione disperata, il sesto Guru (Har Govind) consentì ai seguaci della Comunità di portare armi per la difesa personale e per la libertà della propria Fede. Da allora, la Comunità fu armata e in grado di difendersi dagli attacchi Moghul, a volte con successo, come avvenne nel 1634, quando il sesto Guru, Har Govind, sconfisse in battaglia l’imperatore Moghul Shah Jahan.
La situazione cambiò a svantaggio dei Sikh (e anche degli Induisti), quando ascese al trono Moghul il crudele imperatore Aurangzeb, noto anche come Alamgīr, ovvero il “Conquistatore del mondo”. Convinto assertore di un Islam esclusivo e antagonista, egli non solo promulgò leggi che tendevano a impedire il culto di altre fedi religiose, ma fece anche demolire molti templi, in maggioranza induisti, proibendone, al loro interno, le secolari musiche e danze sacre, cardine della tradizione cultuale induista. Il sovrano vietò non solo la musica induista: egli bandì anche ogni tipo di musica, anche quella che si era sempre svolta alla sua reggia, e quando i musicisti di corte organizzarono un’ultima rappresentazione musicale per celebrare la “morte della musica”, sembra che il sovrano abbia esclamato: “Bene! Lasciate che venga ben sepolta!”.
Aurangzeb proibì anche qualunque rappresentazione di immagini, ponendo fine così alla raffinata produzione delle miniature, tipiche della tradizione Moghul. Ogni trasgressione a queste prescrizioni veniva punita con la morte.
L'intolleranza di Aurangzeb scatenò diverse ribellioni, sia fra gli Induisti, sia fra i Sikh. Il poderoso esercito dell’imperatore, tuttavia, represse tutte le rivolte nel sangue. Molti Sikh furono martirizzati e fra essi anche il nono guru, Tegh Bahādur, che fu decapitato per aver rifiutato la conversione all’Islam.
La valorosa tradizione marziale Sikh
La ferocia dei dominatori Moghul fece capire ai Sikh che il mero uso delle armi per difesa personale non era sufficiente a tutelare se stessi e la propria fede. Così, alla fine del XVII secolo, il decimo Guru, Govind Siṅgh, istituì un corpo di valorosi guerrieri pronti a combattere e a morire per il proprio credo. Nacque così il Khālsā, la ‘Comunità dei Puri’, i cui membri, noti con il nome di Nihaṅg, o Akali (gli ‘Immortali’), diverranno l’ala militante della Comunità Sikh.
La parola Nihaṅg, sembra derivare da un termine persiano che significa coccodrillo, per indicare il valore e la pericolosità di questi combattenti, noti anche come ‘santi guerrieri’.
La nascita del Khālsā era destinata a grandi sviluppi successivi, ma, soprattutto, aveva creato un gruppo di guerrieri formidabili, accomunati da un codice di condotta etico e militare. I loro tratti distintivi erano (e sono tutt’ora):
- cinque simboli caratteristici (1. barba e capelli lunghi. 2. piccolo pettine di legno per raccogliere i capelli. 3. braccialetto di acciaio al polso destro. 4. indumento intimo costituto da pantaloni sopra il ginocchio. 5. spada, spesso sostituita da un coltello)
- un abbigliamento di colore indaco
- un turbante molto elaborato
Spesso, come nel caso di combattenti che hanno dato prova di grande valore, il turbante è costituto da molti metri di stoffa, su cui spicca il simbolo del Khālsā, una lama a doppio taglio inserita in un cerchio, a sua volta circondato da due lame ricurve. Ancora oggi alcuni Nihaṅg indossano un voluminoso turbante che, in passato, fungeva anche da elmetto per proteggere i guerrieri dai colpi di spada alla testa.
Dalla creazione del Khālsā, i Nihaṅg si distinsero per coraggio e valore militare in molte battaglie, non solo contro i Moghul, ma anche contro gli inglesi che, già dal XVII secolo, con un’impresa commerciale, avevano iniziato la loro penetrazione in India.
I guerrieri Sikh si opposero fieramente alla conquista inglese del loro territorio –il Panjab– e combatterono per la loro indipendenza nel corso di due guerre. La prima ebbe luogo nel 1845; la seconda nel 1849. Entrambe le guerre furono vinte dagli inglesi, che annetterono il Panjab alla Corona. Tuttavia, nonostante la prevedibile sconfitta, data dalla sproporzione dei due eserciti, di cui quello inglese poteva contare su armi moderne, i Sikh combatterono con grande valore; non a caso, il Panjab fu uno degli ultimi territori ad essere conquistato dalla Corona.
L’estrema resistenza dei Sikh, in particolare dei militanti del Khālsā, non passò inosservata agli occhi degli inglesi. Essi, infatti, una volta padroni dell’India, inserirono i Sikh fra le ‘razze marziali’ (secondo una visione coloniale che vedeva il sub continente popolato da “razze” ‘imbelli’ e “razze” ‘marziali’), e se ne servirono come la punta di lancia di molte campagne militari intraprese dall’Esercito dell’India Britannica, noto come Indian Army.
L’Esercito dell’India Britannica, noto come Indian Army (I.A) era un poderoso esercito composto da combattenti indiani sotto il comando degli inglesi. Fu creato nel 1902 da Lord Kitchener.
Anche nelle due Guerre mondiali, i Sikh, che rappresentavano circa il 45% di tutto il contingente indiano, combatterono a fianco degli inglesi, distinguendosi per il loro valore. Non a caso, nella Prima Guerra Mondiale, il reggimento Sikh fu il più decorato di tutto l’Esercito dell’India Britannica con 245 onorificenze, di cui 14 ‘Victoria Cross’, il più prestigioso riconoscimento al valore militare assegnato ai membri delle forze armate del Commonwealth.
Per un approfondimento: Tiziana Lorenzetti ‘Sikh, Fede e Valore nelle Guerre Mondiali’, in K. Carnà (ed.) Sikhismo, Roma, Com Nuovi Tempi, 2022, pp. 61-78.
Le abilità guerriere dei Nihaṅg e la festa di Holla Mohalla ‘Carica Militare’.
Il decimo Guru non solo aveva fondato il Khālsā; egli aveva anche scelto un luogo particolare dove i guerrieri avrebbero potuto addestrarsi, così da fronteggiare efficacemente i Moghul. Questo luogo fu identificato nell’antica città santa di Chak Nanaki, situata nel Panjab ai piedi dell’Himalaya, fondata dal nono guru, Tegh Bahādur.
Da allora questa città, rinominata Anandpur Sahib ‘La Città della Beatitudine’, è stata, per secoli, il centro dove si svolgevano gli addestramenti dei Nihaṅg. Qui, una volta l’anno, nel mese lunare di Chet (Febbraio/Marzo), si svolge da secoli il Festival di Holla Mohalla.
Hola deriva dalla parola halla (carica militare), mentre il termine mohalla indica una processione o una colonna dell'esercito. Le parole Hola Mohalla significherebbero quindi “carica militare”.
Per un approfondimento: Sodhi Singh V., Anandpur Sahib and its Role in the Sikh Martial Tradition, in I Sikh, Storia Fede e Valore nella Grande Guerra, catalogo della mostra (Roma, 15 novembre -3 Dicembre 2015), a cura di Tiziana Lorenzetti, Roma, Istituto Internazionale di Studi Sud-Asiatici (ISAS), 2015, pp.139-142.
Durante il Festival, proprio come in battaglia, centinaia di Nihaṅg provenienti da tutta l’India, fanno sfoggio delle loro abilità guerriere: corse a cavallo senza sella; cavalcate in piedi su due cavalli al galoppo; combattimenti corpo a corpo con l’uso di armi tradizionali, fra cui la leggendaria khanda, una spada dritta a doppio taglio. Molto praticato è anche il Gatka, un’arte marziale che richiede grande abilità, equilibrio e movimento coordinato di gambe e braccia. Nel Gatka vengono impiegati anche bastoni di legno e spade ricurve.
Le straordinarie abilità militari dei Nihaṅg vengono celebrate non solo durante Hola Mohalla nella città sacra di Anandpur Sahib, ma anche in tutte le comunità Sikh.
In Italia, i Nihaṅg, vestiti con i tradizionali colori indaco, sfilano in ogni festività e si esibiscono nelle antiche arti marziali, tramandate da generazioni.
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