Gli insegnamenti morali di base del buddhismo come si possono applicare ad alcune situazioni etiche particolari?
Ambientalismo
Il buddhismo è spesso inteso come una spiritualità “ecologica” nel senso che viene percepito come un percorso spirituale di integrazione armoniosa con la natura e come un movimento che promuove l’identificazione e il rispetto reciproco con il mondo naturale. Tuttavia, lo status delle piante e della vegetazione nel buddhismo è piuttosto ambiguo. È difficile stabilire in modo definitivo se i primi buddhisti considerassero le piante e la vegetazione alla pari di altri esseri senzienti. In alcuni testi antichi, si afferma che del karma negativo ricade su colui che taglia un ramo o un albero che un tempo dava frutto e ombra, mentre del merito è concesso a chi pianta boschi e parchi.
Per quanto riguarda la vegetazione, uno degli argomenti più efficaci per proteggere la natura risiede in quello che è diventato noto nel buddhismo come il “filone eremitico”, ovvero quello del consiglio dato ai monaci di vivere in un ambiente naturale per perseguire senza distrazioni la via della liberazione. Tuttavia, il fondamento di questo filone è antropocentrico, nel senso che la natura viene intesa solo come strumento in funzione del raggiungimento del nirvāna da parte di colui che medita, e l’antropocentrismo è generalmente visto in maniera negativa dal pensiero buddhista.
Animalismo
Poiché, secondo gli insegnamenti buddhisti, gli esseri umani possono rinascere come animali (e viceversa), la visione del mondo buddhista instituisce una parentela molto più stretta tra le specie così che le diverse forme di vita sono viste come intrinsecamente interrelate tra loro. Tuttavia, anche se la letteratura buddhista contiene molti riferimenti agli animali e all’ambiente, si deve tener presente che gli insegnamenti buddhisti sono diretti principalmente agli esseri umani, dato che l’obiettivo fondamentale del buddhismo è guidare la persona dalla cecità della sofferenza alla luce del Risveglio (nirvāna).
Il buddhismo pare ammettere una struttura gerarchica tra gli esseri senzienti, con uno status privilegiato concesso all’uomo. Nella descrizione buddhista del samsāra, ad esempio, si menzionano sei regni in cui gli esseri possono rinascere: l’inferno, il regno animale, il mondo degli spiriti, il livello dei titani, il mondo degli uomini e il regno delle divinità. A ciascuno dei sei regni viene accordato uno status e una natura separati, e tra loro esiste una chiara gerarchia: gli animali occupano un regno e gli uomini ne occupano un altro, ed è chiaramente preferibile nascere in quest’ultimo regno rispetto al primo.
Etica sessuale
Gli insegnamenti buddhisti riguardanti l’etica sessuale sembrano esprimere i seguenti ideali:
- 1) il celibato è preferibile al matrimonio;
- 2) per coloro che si sposano, le uniche forme permesse di condotta sessuale sono quelle di natura affettiva e procreativa.
Il buddhismo tradizionale si è perciò preoccupato principalmente di persuadere le persone a diventare celibi rinunciando a ciò che i primi testi chiamano la “pratica del villaggio” (il matrimonio e i rapporti sessuali).
Gli insegnamenti buddhisti non impongono alcun dovere di procreare e la dottrina buddhista interpreta la nascita come la porta che conduce ad una nuova sofferenza all’interno del ciclo del samsāra. Ciò non vuol dire che i buddhisti vedano la nascita di un bambino come un’occasione di dolore – al contrario, essa è celebrata con gioia – ma solo che, da un punto di vista filosofico, l’obiettivo degli insegnamenti buddhisti è quello di porre fine al ciclo di rinascite. Tuttavia, e a partire da una prospettiva un po’ più ottimista, giungere a ciò che i testi chiamano la “preziosa rinascita umana” rappresenta una grande benedizione, poiché secondo gli insegnamenti tradizionali rinascere come essere umano offre un’opportunità maggiore di raggiungere il nirvāna.
Mentre i buddhisti laici sono liberi di sposarsi, è indubbio che lo stato laicale sia considerato inferiore a quello monastico, e che esso sia ritenuto appropriato solo per coloro che non sono ancora in grado di recidere i legami con il mondo.
Guerra e pace
L’opinione espressa da quasi l’unanimità dei testi buddhisti è che poiché la guerra implica l’uccisione, e l’uccisione è una violazione del primo precetto, è sempre moralmente sbagliato combattere in guerre (sia offensive che difensive). È però importante studiare i fondamenti del pacifismo buddhista e scoprire a cosa precisamente esso si oppone. Alcuni studiosi, ad esempio, sostengono che si dovrebbe distinguere tra violenza e forza. Mentre la violenza connota sempre aggressività, non così però la forza. La forza è moralmente neutra: ci vuole forza sia per girare una ruota della preghiera che per trarre in salvo i sopravvissuti di un naufragio. Ora, se si esclude a priori anche l’uso della forza, come pare suggeriscono fonti antiche, com’è possibile fermare degli individui che potrebbero far del male o uccidere cittadini inermi e innocenti? Se il buddhismo esige un pacifismo totale e intransigente, contendono questi studiosi, sembra difficile immaginare come possa funzionare il sistema di giustizia penale. Poiché nessun paese buddhista ha abolito lo stato di diritto, o è privo di mezzi per applicarlo (l’esercito o una forza di polizia), sembra che i principi morali buddhisti debbano consentire almeno un certo uso della forza affinché si possa raggiungere una società armoniosa e giusta (realtà anch’essa che fa parte degli ideali buddhisti).
Terrorismo
Le risposte buddhiste al terrorismo si possono riassumere in tre punti principali.
- 1) Per quanto possibile, si deve cercare di comprendere le cause che hanno prodotto quella situazione violenta. La dottrina dell’“originazione dipendente” insegna che tutto ciò che esiste ha un’origine che dipende da qualcos’altro (o da una molteplicità di fattori) per cui, secondo questo punto di vista, tutti i fenomeni fanno parte di una serie causale, e non esiste nulla che sia in sé indipendente. Ciò significa che non sarà possibile trovare soluzioni al fenomeno del terrorismo fino a quando non si comprenderanno appieno le ragioni da cui è sorto.
- 2) All’aggressione si deve sempre rispondere con la compassione anziché con l’odio.
- 3) La violenza genera un ciclo di ritorsioni che rende ancora più difficile il raggiungimento della pace.
Aborto
La fede buddhista nella rinascita introduce chiaramente una nuova dimensione al tema dell’aborto. In primo luogo, la domanda: “Quando inizia la vita?” – una domanda fondamentale in questo contesto – viene posta sotto una luce completamente diversa. Per il buddhismo, la vita è un continuum senza un punto di partenza distinguibile. Tuttavia, ci si può senz’altro chiedere: la fede nella rinascita aumenta o riduce la gravità dell’aborto? Si potrebbe pensare che lo riduca in quanto si richiede solo di posticipare la rinascita a un tempo successivo: il bambino che sarebbe dovuto nascere nel presente semplicemente nascerà più tardi, in futuro. Le fonti tradizionali, tuttavia, non condividono questo punto di vista e considerano immorale l’uccisione intenzionale di un essere umano in qualsiasi fase della vita, indipendentemente dal fatto che esso nascerà di nuovo. Di fatto, la dottrina della rinascita vede nella persona concepita non solo una “persona in potenza” che si sviluppa per la prima volta dal nulla, ma come un’entità continua che porta in sé l’eredità karmica di un individuo precedente. Data la continuità di questa eredità attraverso migliaia di vite, sembra arbitrario applicare le etichette di “attuale” o “potenziale” a un determinato stadio della gestazione. L’unico caso che il buddhismo ammette per l’aborto è quello praticato per salvare la vita della madre.
Suicidio
Nel Canone pāli vengono descritti alcuni casi di suicidio nei quali dei monaci, malati o sofferenti, si tolsero la vita ricevendo (apparentemente) l’approvazione postuma dal Buddha. I casi più importanti sono quelli dei monaci Channa, Vakkali e Godhika. Una caratteristica che li accomuna è che, alla morte, questi tre monaci raggiunsero lo stato di arhat (cioè di risvegliato) evitando così la rinascita. Ciò ha indotto alcuni studiosi ad affermare che, sebbene il buddhismo sia generalmente contrario al suicidio, esso possa essere ammesso se a compierlo fossero delle persone risvegliate che hanno trasceso le norme morali convenzionali. Tuttavia, nelle prime fonti non si trovano molti elementi per sostenere il suicidio. Uno dei rari passi in cui il suicidio viene discusso in dettaglio è nel Vinaya sotto la rubrica del terzo pārājika, la regola che proibisce di togliere la vita umana.
Una visione tradizionale nel buddhismo afferma che la durata della vita umana è determinata dal karma e che di conseguenza la morte arriverà al momento stabilito. Accorciare artificialmente la vita attraverso il suicidio (o l’eutanasia) è considerato da molti buddhisti come un’interferenza con il proprio destino. Il buddhismo incoraggia certamente i suoi seguaci a meditare sulla morte e a prepararsi alla sua inevitabile venuta, ma non ad anticiparla.